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Il dilemma del “pani cà meusa”: schietta o maritata?

di Monica Militello Mirto
Home Cultura Cucina

“Schietta o maritata?” (nubile o coniugata) chiede l’uomo corpulento che tiene in mano un panino vuoto chiamato mafalda, mentre attende la risposta e intanto viene fulminato con lo sguardo da colui che sta accanto alla donna. La coppia non autoctona si trova al cospetto del “mevusaro”, ovvero del venditore di “pani cà meusa” (pane con la milza) e prima che tale domanda dia luogo a eventuale rissa un palermitano, anch’esso a turno e che “casualmente” (nota è la riservatezza dei miei concittadini) sta ascoltando, svela l’arcano.

Spiega così che il venditore di “pani cà meusa” non sta chiedendo lo stato civile per fare delle avances alla signora, ma desidera sapere se preferisce la milza con aggiunta di ricotta o caciocavallo. Chiarito il malinteso gli animi si placano e la coppia finalmente gusterà “u pani cà meusa”.    

È convinzione diffusa, visto il lungo periodo della loro dominazione, che la maggior parte delle nostre preparazioni gastronomiche siano di origine araba, ma in alcuni casi non è così.

Il “pani cà meusa”, specialità antichissima che ancora oggi è una delle più rappresentative dello street food del capoluogo siciliano ha, infatti, origini ebraiche. Gli ebrei, sebbene presenti nella città di Palermo già dal 590 d.C., intorno all’anno Mille decisero di costruire un loro quartiere, la Giudecca, che comprendeva una serie di costruzioni dislocate ai lati del fiume Kemonia ed era suddiviso in due rioni. Le abitazioni situate fuori dal perimetro cittadino, rappresentato dal Cassaro, avevano un incavo nella porta d’ingresso dove veniva conservato un piccolo rotolo con alcuni versi della Torah. 

Diverse fiorenti attività nacquero nelle varie zone di quel quartiere e nel luogo in cui oggi possiamo ammirare il teatro di Santa Cecilia, si trovava il macello. Qui avveniva la macellazione rituale Kosher (o Kasher) nel rispetto delle leggi della religione ebraica. I macellai ebrei, non potendo incassare denaro dalla loro attività lavorativa in osservanza della loro Fede, tenevano come ricompensa le interiora dei vitelli: polmoni, budella, milza e cuore. Nel cercare il modo di ricavare un guadagno da ciò che restava loro e  probabilmente ispirati dall’abitudine dei cristiani, chiamati anche “gentili”, di consumare le interiora degli animali spesso condite con ricotta o formaggio, nacque l’idea del “pani cà meusa”.

Polmone, milza e “scannarozzato” (pezzi di cartilagine della trachea del bue) venivano bolliti, tagliati, fritti nello strutto e ”serviti” dentro un morbido panino. Nel 1492 gli ebrei vennero cacciati da Ferdinando II, detto “il Cattolico”, ma la loro idea geniale ha attraversato i secoli giungendo fino a noi, mantenendo inalterato il gusto molto forte a volte, proprio per questo, non apprezzato da tutti.

Ricordo che qualche tempo fa un caro amico toscano, in vacanza per la prima volta qui a Palermo, volle assaggiare il tanto nominato “pani cà meusa”, ma non ne riscontrò il gusto personale forse perché condizionato anche dal fatto che nella zona in cui viveva, la milza era utilizzata solo come cibo per gatti. Qui, invece, non andiamo tanto per il sottile e adoperiamo tutto quello che si può così, come tante altre specialità siciliane, anche il “pane cà meusa” è un alimento povero, ma molto nutriente e tremendamente calorico.

Il segreto del sapore unico è la frittura delle interiora  nello strutto che qui viene chiamato “saime”, forse riferito al latino “sagina”, cioè cibo da ingrasso per animali. Per l’ingrasso degli umani palermitani, invece, due panini con la milza sono già sufficienti… Anche per l’apparato digerente che deve impegnarsi parecchio, specialmente se la milza si preferisce “maritata” e non “schietta”. In entrambi i casi il secolare, ma sempre attualissimo “pani cà meusa” è uno dei capisaldi della nostra tradizione, nato da una delle tante popolazioni che ha lasciato un segno nella splendida Palermo, poiché nessuno è mai riuscito e mai riuscirà a cancellare i passi che la storia lascia sulla polvere del tempo.

INGREDIENTI PER 12 FOCACCE ca.:

700 g polmone di vitello;

400 g milza di vitello;

300 g caciocavallo grattugiato;

240 g ricotta fresca;

200 g di strutto

Sale q.b.

PREPARAZIONE:

Lessare le interiora in abbondante acqua salata, (ma si possono acquistare in macelleria già cotte), scolarle e tagliarle a listarelle sottili. Soffriggere nello strutto. Prendere le focacce, tagliarle e imbottirle. A piacimento aggiungere la ricotta o il caciocavallo

Buon Appetito!

di Monica Militello Mirto – EmmeReports

Tags: cibo da stradacucinaCucina poveracucina sicilianaPalermopani cà meusaSiciliastreet food
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Monica Militello Mirto

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