La mostra INQUINAMENTI si inaugura oggi alle 17 alla Reggia Borbonica di Ficuzza: un evento promosso dalla Galleria Studio 71 di Palermo e curata da Francesco Scorsone. E’ una riflessione sul tema del degrado ambientale, l’amaro frutto di un mondo selvaggiamente antropizzato. Gli artisti invitati hanno voluto rappresentare la violenza, la nostalgia di una purezza perduta e una natura che cerca comunque di rinnovarsi nonostante l’affronto quotidiano di una società dei consumi che ne fiacca le forze vitali. Sette maestri del pennello, che usano luce e pigmenti per trasmettere un unico importante messaggio: fermiamoci, il disastro può ancora essere evitato ma occorre una nuova repentina consapevolezza, che forse solo l’emozione dell’arte ci saprà dare.

Antonella Affronti racconta con i colori: nei limiti della tela si svolge l’intera azione descritta con pennellate sicure e pastose, che ben rendono la quiete materica della natura. La sabbia della battigia, porosa e tattile, il velo lucente dell’acqua formata da spirali e linee sinuose, la luce tersa di un cielo appena velato si apre con tinte lisce e piatte, impalpabili e leggere come pastelli. La terra invece è un impasto sedimentario e geologico, dove le bande di colori caldi, opachi ed argillosi, sfumano e si contrappongono in una danza di ocre, bruni e violetti. È terra nuda, senza piante né prati, aperta e ferita non dal vomere bensì lacerata, corrosa e pulsante in uno spasmo di sofferenza da cui cola lo sfarfallio dei rifiuti e che il cielo rifiuta nascosto da una cortina di fumo. Ha la forza del magma ma non è potenza, semplicemente inferno; così come l’azzurra leggerezza del mare è veste inconsapevole fatta di bellezza all’ipocrisia dell’uomo che vi nasconde il lato oscuro di una società dei consumi. Vi è tanta storia dell’arte in queste tele: dagli operai che compiono senza volontà propria né dubbio morale la loro azione distruttrice, al surrealismo di un mondo che è ormai solo apparenza, maschera e specchio di una società malata. Il corpo estraneo, lo scarto, si frappone così nel suo essere rete, gabbia di morte, tra chi guarda e un mondo sommerso ormai perduto.

Luciana Anelli legge il paesaggio secondo uno schema a lei consueto, per bande orizzontali e profili lontani. Nella sua opera al Museo degli angeli il Golgota è identificato dalle croci vermiglie qui invece l’ambiente viene evocato con tratti schematici, quadrangolari per la città, spigolosi per i monti, sinuosi per colline, dune e battigia. È uno spazio fortemente immersivo, perché si snoda senza cesure e potrebbe richiudersi attorno all’osservatore sostituendosi alla realtà fisica; in questo fluire informale il colore assume particolare pregnanza: l’accostamento di azzurri e blu creano un luogo mentale di fuga e libertà, che permane anche quando i colori vengono compressi in una striscia sottile, ma intensa e vibrante. Attorno un grigio onnivoro, bituminoso, che inghiotte luce, riflessi e speranze in un campo visivo piatto, capace di annichilire e spegnere ogni volontà. Per contrasto, proprio in segno di rigetto, di opposizione disperata a questa ovattata assenza di vita segni bianchi e rossi, talvolta lanciati contro la scura fissità della superficie, talaltra in forma di lettere che rimandano a tante ricerche dell’artista sulla poesia visiva, sul linguaggio spontaneo che lascia nella dissoluzione sociale traccia di sé. Lettere che rimandano a grida di soccorso, richieste inascoltate, che si perdono roteando, riflettendosi, mescolandosi ad altri segni in una danza di voci accorate e senza futuro.

Gaetano Barbarotto unisce contenuti e capacità di comunicazione in una pittura iconica, dove lo spazio è un luogo della mente e ogni elemento è presente nell’opera esclusivamente per il proprio valore simbolico. Il dipinto non ricorda un’esperienza, non trasmette un’emozione individuale, rappresenta visivamente le singole parti di un ragionamento articolato per facilitare all’osservatore la comprensione del tema. La volontà istituzionale di tenere nascosto l’inquinamento radioattivo, la desertificazione dei mari, l’ingresso delle plastiche nel ciclo biologico della vita, lo stillicidio velenoso dei mozziconi abbandonati sono problematiche indagate con attenzione e rese con una sintesi potente. La sua arte ha la concretezza e la plasticità degli affreschi fioriti nelle città commerciali del basso medio evo, nelle Repubbliche marinare, nelle chiese conventuali: dipingere significa perciò comunicare, trasmettere un messaggio, comporre una scena che sia non solo equilibrio visivo e ricerca di bellezza ma risulti essenziale, priva di inutili ornamenti. Le linee di forza sono sempre leggibili: o procedono parallele, oblique e più dinamiche nei delfini, orizzontali e incombenti sulle sigarette abbandonate; oppure seguono le diagonali per bloccare l’osservatore al centro del problema in un confronto drammatico tra il messaggio dell’artista e la coscienza di chi guarda.

Alessandro Bronzini descrive con assoluto disincanto una realtà dove rifiuti e ambiente, elegia e sfregio, convivono senza essere giudicati perché il nostro mondo è l’inesorabile e avvelenato frutto di azioni, omissioni e noncuranze. Non possiamo fuggirlo, ci appartiene e riflette, così come noi – artefici del disastro – ne siamo irrimediabilmente parte. C’è differenza però, tra il subirlo che è di tutti e il sublimarlo, che appartiene a pochi. L’artista, allievo in gioventù di Filippo Panseca che già ne apprezzava il perfezionismo, cristallizza in una gemma le luci della realtà. Sono opere dove ogni colore è luminoso, nonostante i fumi e i gas incombusti, nonostante tutto quanto galleggi e lentamente sommerga acque dolci e battigie salate. È raro nella storia dell’arte che l’opera sappia trattenere il riverbero e lo scintillio che il sole dona anche alle più umili cose: accadde nella Ravenna bizantina, sui muri sacri di Santa Sofia, a Ferrara nel Rinascimento, a Venezia che guardava all’Oriente, al Manierismo del quasi omonimo Bronzino. Occorre che la tempra dell’artista sia forte, che la sua riflessione sia così matura da abbandonare ogni velleità narrativa, padroneggiare l’emozione e concentrarsi solo sul significato. La sua capacità è proprio questa: rendere concreto e vero il grande teatro delle idee, dando ai concetti corpo, volume e soprattutto colori.

Elio Corrao presenta alcuni elementi costanti della sua poetica: la trasparenza di un cielo che è l’infinito affacciato sulla concretezza della vita; la leggerezza di uno specchio capace di trattenere l’intimità di un ricordo; la superficie anonima delle cose, quindi delle case, cioè la banalità dell’esterno che è custode però di momenti preziosi; l’impasto dei colori spenti trasformato in un simbolo materico di oppressione e soffocamento. Queste opere si leggono per contrasto, in un mondo che non ha scale di valori ma solo punti di vista e gesti sbagliati: la sua è una pittura di luce, oscurarla manifesta sofferenza; è un comporre spazi di ampio respiro, una prospettiva centrale che invece di stringere sul punto di fuga suggerisce un espandersi verso orizzonti sempre più vasti, siano questi proiettati sull’universo dei ricordi o nella silenziosa immensità del cosmo. Il rifiuto è una pennellata scomposta, disarticolata e multiforme che irrompe nella scena, turba e invade l’architettura del dipinto. Non appartiene al mondo intimo e assetato di bellezza dell’artista: è un brusio di colori che fa risaltare ancor più la compostezza e la dignità di un delicato mondo interiore. Anche quando tutto è corroso da ombre, fumi densi, orizzonti industriali, acque piatte e torbide, sulla plastica abbandonata brilla comunque una scintilla di luce, perché nella sua pittura c’è sempre un riflesso del sole.

Ivana Di Pisa sposta la linea d’orizzonte che nelle sue opere abitualmente separa e tiene in equilibrio le campiture fatte di case e i reticoli di finestre, dai cieli immobili e dall’azzurro lucente del mare. Lo sguardo dell’artista che crea paesaggi ricomponendo frammenti di memoria, si concentra adesso sul ripetersi degli elementi: profili di tetti forse terrazzati o semplici cubi di abitazioni affastellate, finestre e ringhiere che tagliano i muri senza preavviso, come geometriche ferite. Deturpare la terra significa anche questo, sporcare la bellezza di un suolo coprendolo con volumi di necessità, sordidi o selvaggiamente speculativi. Lo spatolato, che in altre tele ha saputo evocare la fragile bellezza della luce aperta a ventaglio su antichi quartieri e monti lontani, che ha colto il gioco di specchi tra cielo luminoso e acqua senza onde, ora si trasforma e diventa materia concreta, quasi scultorea. Il paesaggio edificato ha divorato ogni differenza, il suo impasto ammanta ogni cosa, fagocita, inghiotte e si appropria della bellezza. Quando la natura è sopraffatta anche il cielo rinuncia alla propria trasparenza, ha il colore della terra oltraggiata, diventa come intonaco. L’equilibrio tra l’uomo e il territorio è prima di tutto urbanistica, spontanea nei bisogni ancestrali di protezione e sicurezza, pianificata nelle civiltà più evolute, ma sempre bilanciata tra risorse e necessità.

Gery Scalzo ha sempre esplorato colori e forme della propria terra: dai morbidi rilievi ai cieli sconfinati di una provincia dell’interno, dallo stupefatto affaccio sul mare alla languida e dorata malinconia dei tramonti, dai volti di donna ai tessuti, ai fili di perle che raccontano incontri, separazioni, lontananze. È pittura di emozioni, quella che si accumula dentro col passare dei giorni e filtra e trattiene gli sguardi, gli orizzonti, oggetti e impressioni. Trasuda di narrazioni, è il riflesso di un’esistenza trascorsa per avvicinare le persone alla bellezza, per annodare attraverso l’arte la realtà che cambia alle proprie radici, per legare campagne e pascoli, boschi e pietraie a isole battute dal vento, riarse e bagnate dagli spruzzi dell’onda. L’immagine è costruita come un leggero velo; come un tessuto, un ricamo, una seta lucente. I colori affiorano e convivono, disegnando immagini, forme ma soprattutto contorni; non perdono luminosità, non proiettano ombre: ognuno col proprio tono brillante, come tessere di un mosaico, come un vivido sogno o un’emozione di gioventù. Alcuni elementi, le piogge acide il metallo abbandonato la natura divorata, corrompono questo ricordo di pace: l’artista è un poeta che ha visto degradare il proprio universo; ne porge in silenzio la memoria a chi guarda: è un monito accorato a non perseverare, a non distruggere ancora.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito
“INQUINAMENTI” a cura di Francesco Scorsone
opere di Antonella Affronti, Luciana Anelli, Gaetano Barbarotto, Alessandro Bronzini, Elio Corrao, Ivana Di Pisa e Gery Scalzo;
in catalogo testi di Gonzalo Àlvarez García, Paola Caruso, Sandra Guddo, Massimiliano Reggiani e Vinny Scorsone.
Reggia Borbonica di Ficuzza (PA) dal 13 agosto al 31 ottobre 2021
dalle 9 alle 19 orario continuato, festivi dalle 9 alle 22.