Credo sia alquanto riduttivo affermare che questi sono tempi molto strani e confusi, e sono certo che i posteri parleranno di questo periodo storico, come delle più grandi pagliacciate della Storia.
In un periodo come questo dove parole, come quella brutta parola che inizia con “F” e finisce con “ista”, “No Vax”, “complottista”, “negazionista”, “Si pass”, “Si vax”, volano qua e là sbattute come palline da flipper nel nulla cosmico, l’unica cosa certa è il dramma della sanità italiana che, inevitabilmente, ricade sui cittadini e sulla vita di tutti i giorni.
Questo però non è che il riflesso di una macelleria sociale che affonda le sue radici qualche decennio indietro nel tempo, con il suo anno zero nel il 1978!
Altra parola assai d’uopo, nel flipper targato nulla cosmico, è “dittatura”. Ma quale dittatura domando io, se siamo in una democrazia dal 1946? Anche perché quando in Italia c’era la dittatura vera (mica quella sanitaria), con tutti gli annessi e connessi, fece tutta una serie di politiche volte ad aumentare il consenso popolare, specie in ambito sanitario.
Alcune di queste sono state l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi che raggiunse la copertura di 42milioni di italiani (su una popolazione di circa 45milioni) negli anni ’30; la creazione dei Sanatori per la diagnosi dei morbi infettivi. Ricordiamo tra i più famosi Sanatori lo “Spellanzani” (si, proprio quello che isolò il batterio del Covid19) di Roma, il “Forlanini” (chiuso dall’amministrazione PD) anch’esso di Roma ed il “Sacco” di Milano.
Come altre politiche sociali ricordiamo la fondazione dell’Istituto Nazionale per le Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) nel 1933, la fondazione dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) nel 1934, inizialmente chiamato “Istituto di Sanità Pubblica”; nel 1934 nasce la Federazione nazionale delle casse mutue per i lavoratori dell’industria (letteralmente, la mutua); dello stesso anno è il Testo unico delle leggi sanitarie; la legge Petragnani del 1938 sull’ordinamento dei servizi sanitari e tra il 1942 ed il 1943, si era raggiunta la copertura sanitaria di tutti i dipendenti pubblici.
Per concludere questa breve parabola, non possiamo dimenticare che gli ospedali nel 1936 erano ben 1474, con 153.577 posti letto su tutto il territorio nazionale. Tenete bene il conto di queste riforme e del suo ordine cronologico, perché questo sistema sopravviverà ai suoi creatori e rimarrà quasi del tutto immutato fino al 1978. Lì, poco per volta, vedremo il sistema sanitario che colerà a picco, grazie alla classe dirigente politica italiana.
Già dieci anni prima, con la legge n. 132, gli ospedali furono «affrancati dal loro tradizionale ancoraggio alla sfera dell’assistenza» e trasformati in «aziende di cura»: entrò allora nelle sale ospedaliere il virus della lottizzazione partitocratica di cui Luigi Zampa diede un magistrale ritratto con Il medico della mutua che, non a caso, Alberto Sordi interpreta nell’annus horribilis 1968.
Dopo il default delle mutue nel 1978 nasce il Sistema Sanitario Nazionale organizzato non più in ospedali, ma in enti territoriali. Sorgono le Unità Sanitarie Locali (USL), create e gestite dai Comuni, punto di incontro del compromesso storico tra Dc e Pci (governo Andreotti). Una riforma nata vecchia, marchiata dai ritardi e dai compromessi di un sistema politico che da una parte decentrava la spesa e dall’altro conservava a carico dello Stato il prelievo fiscale delle entrate per finanziarla. Il tutto favorendo le logiche clientelari che avevano già fatto fallire il sistema mutualistico sacrificando sull’altare della partitocrazia una gestione etica e responsabile degli amministratori (nominati, appunto, dai partiti). Saranno poi i governi Amato e Ciampi a trasformare le Unioni Sanitarie Locali in Aziende Sanitarie Locali (ASL) con unica eccezione in tutto il territorio italiano per la Sicilia, in cui le aziende sanitarie vengono suddivise in Province (ASP) ed introdurranno anche il ticket sanitario. il sistema sanitario oltre che perdere efficienza perde anche omogeneità: le Regioni meno virtuose perdono terreno rispetto alle altre, nasce la Sanità di serie A e quella di serie B. Nel 1999 col governo D’Alema ci pensa Rosy Bindi (legge n. 299) le cui dichiarazioni riformistiche saranno contraddette da una riforma basata su una supposta superiorità tecnico-gestionale dei manager che, resi fulcro del sistema, rimangono di nomina delle giunte regionali.
Non dimentichiamoci dei tagli alla sanità! E’ li la vera ecatombe! La Fondazione Gimbe calcola che il grosso dei tagli sia avvenuto tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), con circa 25 miliardi di euro trattenuti dalle finanziarie del periodo, mentre i restanti 12 miliardi sono serviti per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte).
Come si legge nell’annuale relazione della Corte dei Conti, la frenata più importante è arrivata dagli investimenti degli enti locali (-48% tra il 2009 e il 2017) e dalla spesa per le risorse umane (-5,3%), una combinazione che in termini pratici si ripercuote sulla quantità e sull’ammodernamento delle apparecchiature, oltre che sulla disponibilità di personale dipendente, calato nel periodo preso in considerazione di 46mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si fanno sentire soprattutto nel sud Italia. I posti letto complessivamente disponibili nelle strutture pubbliche sono 151.646 (2,5 ogni mille abitanti), che sommate alle oltre 40mila unità incluse in strutture private rappresentano un calo del 30% rispetto all’anno 2000. Dati aggiornati al 2017. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Italia ha a disposizione 164mila posti letto per pazienti acuti (272 ogni centomila abitanti), dato calato di un terzo dal 1980 a oggi. I posti in terapia intensiva sono invece poco più di 3.700, che diventano 5.300 (8,4 ogni 100mila abitanti) se consideriamo anche le strutture private.
Non dimentichiamo anche che quando si parlava, tra un lockdown e l’altro, della distribuzione del “Recovery Found” che alla sanità spettarono, furono concessi nient’altro che le briciole, favorendo in toto la digitalizzazione, lasciando a noi il dubbio che questa pandemia fosse un virus informatico.
Per concludere, dicono che occorrono tre dosi di un vaccino, nel giro di 8 mesi, per un virus che ha una mortalità dello 00,6% e che tutto questo viene fatto per la nostra salute.
Strano però, perché per aspettare di effettuare una visita in una struttura pubblica, possono passare anche anni ed a giudicare dal massacro della sanità pubblica, direi che l’emergenza sanitaria sia iniziata da molto prima di un pipistrello mangiato alla scottadito. Ed erano tempi, diciamolo pure, che proprio a nessuno importasse della nostra salute.
di Vittorio Emanuele Miranda – EmmeReports