Siamo a quasi due mesi di guerra in Ucraina. La pandemia è quasi un ricordo lontano, nonostante molti di noi combattono per un ritorno alla normalità. Le immagini che entrano nelle nostre case dove, comodamente, discutiamo su chi o cosa abbia provocato il conflitto internazionale armato, dichiarandoci pro o contro, ci arrivano grazie a chi ha deciso di raccontarlo in prima persona, mettendo a rischio la propria vita. Alcuni di loro sono morti per questo. Molte emittenti importanti, molte testate giornalistiche, dalle TV di Stato a quelle private, hanno basato la loro copertura mediatica con i freelance. Per la prima volta, abbiamo visto collegamenti in un telegiornale, fatti da un fotogiornalista con la macchina fotografica e il suo racconto. Noemi La Barbera, una freelance molto esperta, ha deciso di documentare il viaggio di chi scappa dalle bombe e si rifugia oltre il confine. Ha preso la sua videocamera e da Palermo ha raggiunto Záhony, in Ungheria, per intercettare delle storie da raccontare.
Perché hai deciso di andare al confine con l’Ucraina?
Sono andata a Záhony, in Ungheria, a 2 km da Čop, città ucraina, perché lì arriva tanta gente col treno, essendo l’unica città del confine ungherese-ucraino ad avere la stazione. Záhony è un crocevia diverso rispetto agli altri, le persone arrivano in questa minuscola stazione anche a piedi o con le macchine. L’Ungheria, dopo la Polonia, è il secondo paese per numero di arrivi. Ho deciso di andare al confine con l’Ucraina, perché è il mio lavoro, perché ho sentito subito il bisogno di andare a vedere con i miei occhi quello che stava succedendo, non tanto la guerra e le bombe, perché per entrare dentro il territorio ucraino, devi essere addestrato, non ci si improvvisa in determinati contesti così pericolosi.

Quindi è meglio non andare se non si è preparati, giusto?
Ho letto un post di un fotoreporter, in Ucraina dai primi giorni di guerra, dove, rivolgendosi ai colleghi del mondo dell’informazione, diceva ‘non venite, se non siete organizzati, se non sapete veramente cosa dovete fare e come muovermi, perché rischiate di mettere a rischio, non soltanto la vostra vita, ma anche quella del fixer che vi sta accompagnando’. Credo che sia una santa verità, perché non ci si improvvisa reporter di guerra.
Cosa hai documentato allora?
Ho preferito puntare l’attenzione su quello che è il filo conduttore del mio percorso professionale, ovvero le tematiche delle migrazioni, raccontando le storie di queste persone che scappano dall’Ucraina. Dapprima ho pensato di andare al confine polacco, dopo ho cambiato destinazione, ritenendolo, lavorativamente parlando, meno interessante, rispetto a quello ungherese, meno mediatizzato, meno esposto e dove c’erano meno operatori dell’informazione, fotografi e giornalisti. Sono una freelance e credo che fare questo lavoro, sia quasi un dovere, sicuramente difficile, ma che ti permette di avere più libertà, di scommettere, perché è una scommessa scegliere di seguire determinate tematiche, piuttosto che altre già coperte da altri colleghi. Mi interessava molto il fatto che fosse l’Ungheria di Viktor Orbán, un paese che, da un punto di vista della dell’immigrazione, non è stato un paese tanto ospitale, anzi, ha scritto tra le pagine più negative nella storia dell’accoglienza dell’Europa.
Che situazione hai trovato a Záhony?
Prima di partire, non ho visto molte immagini dell’Ungheria, quindi sono andata un po’ impreparata, senza sapere dove avrei dormito e come organizzare logisticamente la mia permanenza. A Záhony ho trovato una stazione diventata un centro di accoglienza, dove, quotidianamente, arrivano tanti profughi dall’Ucraina. Anche una scuola è stata trasformata in un campo di accoglienza, il cui enorme campo di basket, è stato adibito a dormitorio. La stazione, dove i volontari hanno allestito dei punti per distribuire pasti e bevande calde, ha cambiato completamente il suo aspetto, diventando il primo punto di arrivo, ma anche un punto di ripartenza. Da lì ripartono i treni con gli uomini che, dopo aver accompagnato le donne, ritornano a combattere. Fuori la stazione ci sono anche i pullman per l’Italia, così come alcune famiglie italiane, che vengono a prendere le donne con i bambini per portarli in salvo e per ospitarli nelle proprie case. Fuori la stazione anche una grossa tenda, allestita per una prima accoglienza, poi smantellata, per essere ristrutturata secondo dei criteri di sicurezza e di organizzazione maggiori, grazie al CESVI, un’organizzazione indipendente umanitaria con sede a Bergamo e la prima Onlus Internazionale entrata in territorio ungherese. Prima, infatti, hanno operato solo volontari provenienti da tutta Europa e in modo abbastanza autonomo, ma anche la Croce Rossa e un’associazione legata alla chiesa evangelica ungherese. Il CESVI ha creato un Hub, coordinando tutti gli aiuti, in collaborazione con la municipalità di Záhony. Ho saputo che la MÁV, una società ferroviaria statale ungherese, offre il solidarity ticket, un biglietto che permette ai profughi e rifugiati ucraini di spostarsi in tutto il territorio ungherese.

Per te qual è l’immagine simbolo di Záhony?
La stazione di Záhony è diventata il principale centro di accoglienza, con continui arrivi di famiglie che, con i loro trolley, attraversano i binari. Sicuramente queste famiglie che attraversano i binari, insieme ai bambini con il con i loro cagnolini e i loro peluche, è per me un’immagine simbolo.
Qualche storia che ti ha colpito?
Non ce n’è una in particolare, perché ogni storia ti colpisce in modo diverso, c’è una narrazione abbastanza simile e poi si esplica in storie diverse, di famiglie spezzate e disunite dalla guerra. Non c’è forse una sola persona con cui abbia parlato, che non abbia lasciato qualcuno della sua famiglia in Ucraina. Spesso chi rimane in Ucraina sono i genitori anziani che non vogliono assolutamente lasciare le loro case e il loro paese, che preferiscono morire tra le bombe. I figli questo lo sanno e con il cuore pesante, partono, lasciando i loro genitori, come tante giovani ragazze in viaggio da sole.

Chi resta in Ucraina?
Uomini dai 18 ai 60 anni, perché hanno l’età di obbligatorietà per combattere. Quelli che ho incontrato a Záhony, avevano il certificato di esenzione alle armi, per ricongiungimento familiare o per problemi fisici. Ho chiesto ad un ragazzo di 35 anni perché non fosse in Ucraina a combattere. Si è quasi giustificato, facendoci notare che non lo poteva fare per un problema ad una gamba, ma che per loro, combattere è un elemento di fierezza e di coraggio. Le donne quando ti raccontano che i loro fratelli, i loro papà, i loro mariti i loro fidanzati e i loro figli, sono rimasti a combattere, te lo dicono con dolore, ma non con rabbia.
Quindi sono storie di queste famiglie spezzate dalla guerra?
Si. Come quella di Yulia, la prima persona in assoluto con cui ho parlato a Záhony. Forse una delle persone che mi ha colpito di più emotivamente, perché sembrava una roccia, quando ho iniziato l’intervista. Una giovane insegnante, arrivata da Kiev, insieme ad un’altra donna con la mamma sulla sedia a rotelle. Yulia, sapeva l’inglese. Molti parlano solo ucraino e russo. Quando ho chiesto a Yulia, cosa avesse lasciato in Ucraina, è scoppiata a piangere. Un pianto che non mi aspettavo, per come lei si stava presentando e per come stava gestendo l’intervista. Questo mi ha fatto capire che l’equilibrio di queste persone è veramente appeso a un filo, viaggiando tra le bombe e approfittando dei corridoi umanitari, durante i quali, temono di continuo per la loro vita, perché continuano a esplodere di tutto intorno a loro, ponti, università, aeroporti. Ti raccontano viaggi fatti senza cibo e senza energia elettrica. Yulia mi ha raccontato di aver lasciato la mamma a Kiev, perché non voleva abbandonare la sua casa e di aver lasciato anche il suo compagno, rimasto a combattere, ma anche tutti i suoi studenti.
Come la vivono i bambini?
I bambini hanno questa pacatezza che non ho mai visto in altri bambini in nessun altro paese europeo. Credo che sia legato alla loro cultura, alla loro educazione, sicuramente anche ai traumi che stanno avendo. Mi ha colpito la loro capacità di essere composti accanto ai genitori. Non si lamentano, non piangono, non si arrabbiano, piuttosto si estraniano con un gioco, col telefonino o con un libro, messi a disposizione dei volontari. I volti dei bambini mi hanno colpito particolarmente.
Secondo te è giusto riprendere e pubblicare la sofferenza umana, i volti dei bambini che scappano dalla guerra e i morti in strada?
Credo che non si può prescindere da questo. Non farlo significherebbe non coprire, non raccontare un conflitto. La guerra va raccontata e la sofferenza umana fa parte della guerra, i morti fanno parte della guerra e il dovere dell’informazione è anche questo. Credo che non ci sia un problema deontologico, anzi è un dovere raccontare la realtà e apprezzo tante persone coraggiose che sono andate in Ucraina a farlo rischiando la loro vita e spingendosi fin dove era giusto spingersi, perché non è un paese che andava abbandonato come tanti altri, pensiamo allo Yemen, pensiamo alla Siria, pensiamo a tanti altri teatri, diventati blindati, dove ci sono guerre civili, come in Libia. Per fortuna, in Ucraina, ci sono stati i riflettori e la mobilitazione collettiva, a non far sentire queste persone sole a combattere.

Secondo te si può motivare una guerra?
Credo che non si possa mai giustificare una guerra. Non è un’idea solo pacifista, ma anche un’idea politica. Non si può giustificare l’invasione di un paese che, comunque, ha la sua sovranità e che, probabilmente, per uscire da questa guerra, dovrà rinunciare alla sua neutralità.
Diversi giornalisti sono stati uccisi in Ucraina. Ma vale ancora la pena fare il nostro lavoro?
Penso che la risposta sia personale. Conosco tanti colleghi che hanno rinunciato a fare questo lavoro nel tempo, trovando altri modi per vivere, magari contrari a quello per cui avevano studiato e a quello che avevamo desiderato. Affrontare questo viaggio è molto difficile. Ci sono tanti freelance che si sono mossi, che sono andati subito in Ucraina e questo fa ben sperare sul fatto che ci sia ancora tanta passione giornalistica, nonostante in Italia, sia veramente complicato essere un freelance e sono forse di più i motivi per lasciare, che i motivi per continuare. La risposta è personale, ognuno la trova dentro di sé e, ovviamente, affrontare le spese, dipende poi dal tipo di lavoro che vai a fare. Sono delle motivazioni più di ordine pratico e pragmatico, che poi sono dei bilanciamenti che devi fare col resto della tua attività professionale. Ognuno di noi probabilmente trova il modo di rendere sostenibile tutto questo e di portarlo avanti il più a lungo possibile.
Qual è il ruolo dei freelance in questo conflitto?
Credo che questa guerra ci abbia fatto vedere un cambiamento epocale, dal punto di vista della narrazione del conflitto, ma anche lo stato di salute dell’informazione italiana. Mi ha colpito che, da parte di media molto importanti, non c’è stata la volontà di mandare dei giornalisti interni, a coprire la guerra. Ci sono stati questi bravissimi freelance a farlo ed è sicuramente meritorio per loro, forse meno per le emittenti. Pagare un esterno può essere sempre più conveniente anche a livello di organizzazione e di responsabilità, rispetto che mandare un proprio interno. Secondo me dice tanto sullo stato dell’informazione italiana. Negli altri paesi c’è stato, invece, un raddoppiare o triplicare le proprie forze giornalistiche, per raccontare la guerra in Ucraina.
Hai intenzione di tornare a Záhony o in un altro posto?
Spero di sì. Ma solo se posso sostenere questa scelta. Per un freelance bisogna capire se vale la pena. Sarei rimasta, ovviamente, c’erano dei colleghi di testate straniere, pagati dalle loro televisioni per stare lì e continuare a coprire il racconto. Mi sarebbe piaciuto fare come loro, ma per me deve essere sempre una scelta che può essere sostenibile e quindi sono dovuta tornare col cuore piccolo, perché sentivo ancora il bisogno di raccontare, di intercettare. Per noi freelance tutto questo deve essere sostenibile e deve rientrare in una scelta professionale ben precisa. Posso tornare soltanto se realmente riuscirei a fare qualcosa di diverso e poter pubblicare i miei lavori.
Di Francesco Militello Mirto – EmmeReports
Foto Copyright Noemi La Barbera