La costituzione della Guardia Costiera in Italia risale all’8 giugno 1989, quando, con apposito decreto interministeriale, si riconobbe la specificità delle funzioni operative del Corpo delle Capitanerie di Porto distinguendole, a livello organizzativo, dalle funzioni tecnico-amministrative espletate nell’ambito dei porti nazionali dalle articolazioni territoriali del Corpo stesso. Già la legge n° 979 del 31 dicembre 1982 sulla tutela dell’ambiente marino previde una struttura organizzativa all’uopo dedicata che, pur venendo aggiornata nel tempo, è rimasta saldamente ancorata al Corpo delle Capitanerie di Porto e, soprattutto, alla sua articolazione operativa istituita con il predetto decreto interministeriale, ossia la Guardia Costiera.

L’approvazione della convenzione di Amburgo sul soccorso in mare, il suo recepimento nell’ordinamento italiano e la sua attuazione avvenuta con D.P.R. n° 662 del 28 settembre 1994 hanno ulteriormente caratterizzato l’organizzazione della Guardia Costiera, definendone la struttura e la catena di comando e controllo per l’espletamento della primaria funzione di ricerca e soccorso in mare e nei laghi maggiori. La costituzione della Guardia Costiera in Italia ha preceduto di qualche mese un evento che ha inciso indelebilmente sul corso della storia: l’abbattimento del muro di Berlino, simbolo della divisione in blocchi del mondo dopo la seconda guerra mondiale, avvenuto il 9 novembre del 1989, e la successiva implosione, o “suicidio” secondo molti, dell’Unione Sovietica, l’“impero del male” di reaganiana memoria. Il mondo diventava unipolare e la pax americana cominciò a trasformarlo in un unico grande mercato, globalizzato appunto.

L’incremento esponenziale dei traffici marittimi furono al contempo l’effetto e la causa motrice della globalizzazione, caratterizzata dall’enorme sviluppo e velocizzazione dei trasporti sia dell’energia che delle merci containerizzate. La neo-costituita Guardia Costiera italiana si trovò pressoché subito a dover affrontare le nuove sfide che i cambiamenti geopolitici indotti dalla fine della guerra fredda comportarono negli usi civili del mare, incrementando il proprio strumento operativo con l’acquisizione di nuove unità navali nonché di aerei e di elicotteri specificamente configurati per il pattugliamento marittimo, l’antinquinamento e, naturalmente, il soccorso.

Occorreva approfondire ed estendere l’attività di controllo e prevenzione nei confronti di flussi di traffico mercantile molto più intensi nell’incipiente fase del “gigantismo navale”, così come nei confronti delle attività di pesca che cominciavano ad avvalersi di strumenti sempre più sofisticati e precisi di navigazione, localizzazione e cattura, oltre che nei confronti delle attività ludiche e del numero e dimensioni delle unità da diporto in rapidissima espansione. Le normative nazionali, europee ed internazionali sulla sicurezza della navigazione, sulla tutela delle risorse del mare e sulla difesa dell’ambiente marino vennero aggiornate ed adeguate alle nuove sfide che il turbocapitalismo imponeva. In particolare, nel 1994 entrò in vigore la convenzione di Montego Bay sul diritto internazionale marittimo, altrimenti nota come UNCLOS 82, che detta una nuova disciplina sui limiti e sull’uso di spazi marittimi antichi, come le acque interne, le baie storiche, il mare territoriale e l’alto mare, e di spazi marittimi più recenti, come la piattaforma continentale, aggiungendone di nuovi, come la zona economica esclusiva.

Le operazioni di sorveglianza e polizia marittima sempre più spesso comprendevano, nella stessa missione, la vigilanza e gli interventi sulle attività di pesca, la localizzazione di inquinamenti e l’identificazione delle unità responsabili, la verifica sulla correttezza dell’uso degli spazi marittimi, anche in relazione alle ordinanze emanate dai vari circondari marittimi, da parte di unità navali sia commerciali sia da pesca che da diporto, nonché l’assistenza ed il soccorso a unità e persone in difficoltà o in pericolo. Per tale ragione le nuove navi, gli aerei e gli elicotteri della Guardia Costiera cominciarono ad essere dotati di sistemi sempre più aggiornati e sofisticati per la localizzazione, visualizzazione anche a distanza e identificazione di navi, pescherecci, piccole imbarcazioni e inquinamenti con capacità di operare anche di notte, registrare e trasmettere dati ed immagini, ma anche di sistemi di soccorso come battelloni aviolanciabili dagli aerei e verricelli ed aerosoccorritori sugli elicotteri. Insomma, lo strumento operativo della Guardia Costiera italiana divenne sempre più multi-purpose, imponendosi come modello per le organizzazioni similari in tutto il Mediterraneo e non solo. Ma, anche se la minaccia di un conflitto mondiale era cessata, la superpotenza globale e i suoi alleati, i vincitori cioè della guerra fredda, erano obbligati a garantire la sicurezza a livello regionale, alla luce di quanto prevede la carta delle Nazioni Unite ed in attuazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. E fu così che, qualche ora dopo lo scadere dell’ultimatum dell’ONU a mezzanotte del 16 gennaio 1991, ebbe inizio la prima guerra del Golfo, definita “la prima guerra del villaggio globale”.

Ricordo che ero un giovane secondo pilota sui P-166DL3, la prima linea di volo ad ala fissa della Guardia Costiera, e, dopo qualche giorno dall’inizio del conflitto, fui inviato con due aerei e due equipaggi in rischieramento dal 2° Nucleo Aereo di Catania sull’aeroporto militare di Trapani con il compito di sorvegliare quotidianamente un ampio tratto dello Stretto di Sicilia per individuare e riportare potenziali rischi nei confronti del traffico marittimo e per tutelare la libertà di navigazione. Cominciava a delinearsi il concetto di “attacco ibrido”, non condotto, cioè, né con sistemi convenzionali né da soggetti statuali discernibili. La missione durò diverse settimane e mi consentì di entrare direttamente in contatto con il deciso incremento dei volumi di traffico che la globalizzazione comportava soprattutto in senso longitudinale, ma anche con la massiccia presenza di navi fattoria e relative flottiglie di pescherecci battenti bandiera giapponese e dedite a razziare i tonni rossi del Mediterraneo e con i dissidi che già da diversi anni contrapponevano i pescatori siciliani e le autorità tunisine per la pesca nella zona cosiddetta “del Mammellone”. Insomma, fu per me un’esperienza illuminante sul rapporto tra il neonato villaggio globale figlio della fine della guerra fredda, il forte senso di libertà e di sicurezza che allora nel mondo si cominciò ad avvertire e gli usi leciti ed illeciti del mare.

Qualche mese dopo, nell’aprile del 1991, si verificarono a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro due eventi che hanno segnato la storia del mare: l’esplosione e l’affondamento della petroliera cipriota “Haven” in prossimità del porto di Genova, e la collisione tra la petroliera “Agip Abruzzo” e il traghetto “Moby Prince”, entrambe battenti bandiera italiana, nella rada di Livorno. Il primo evento rappresenta il più grave disastro ecologico mai verificatosi nel Mediterraneo: del carico di 144000 tonnellate di petrolio greggio presenti a bordo della Haven, 90000 tonnellate bruciarono, mentre buona parte del carico residuo è tuttora deposto sugli alti fondali tra Genova e Savona. Il secondo evento comportò l’incendio del traghetto alimentato da tonnellate di petrolio fuoriuscito dall’Agip Abruzzo e la morte di tutte le 140 persone che, tra passeggeri ed equipaggio, si trovavano a bordo, con un unico sopravvissuto. In entrambi i casi furono impiegati gi aerei della Guardia Costiera in configurazione antinquinamento. Io feci parte di un equipaggio che dal 2° Nucleo Aereo di Catania fu rischierato sull’aeroporto di Genova per diversi mesi. Eseguivamo due voli al giorno con aerei P-166DL3 con a bordo i primi sistemi di telerilevamento bispettrali e multispettrali in dotazione alla Guardia Costiera in grado di effettuare la mappatura della presenza degli idrocarburi in mare fornendo posizione, estensione e densità e di consentire la valutazione dell’efficacia degli interventi di recupero. Eravamo l’unica organizzazione governativa a disporre di simili sistemi in tutto il Mediterraneo.

Divenne immediatamente chiaro che maggiori volumi di traffico, navi sempre più grandi, coesistenza sempre più stretta di differenti tipologie di unità ed attività in mare stavano comportando un rilevante e repentino incremento del livello di rischio sia per l’ambiente e le risorse del mare che per la vita delle persone che sul mare e del mare lavorano, vivono o che, per qualsivoglia ragione, al mare si riferiscono. Accanto all’organizzazione ed ai mezzi preposti a fronteggiare le emergenze, occorrevano norme e strumenti più adeguati a prevenirle.

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso la Guardia Costiera ha compiuto enormi sforzi per dotarsi di strutture e professionalità in grado di fronteggiare gli accresciuti rischi e prevenire gli incidenti, intervenendo su tre fondamentali ambiti: la sicurezza di navi, imbarcazioni e pescherecci, la preparazione del personale navigante e la regolamentazione e il controllo degli spazi marittimi. Venne creato un centro di formazione dedicato alla sicurezza della navigazione dove personale dedicato del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera acquisisce le specifiche conoscenze e competenze per svolgere le funzioni di ispettori a bordo delle unità in attuazione delle vigenti norme internazionali e nazionali e secondo le prescrizioni dell’IMO (International Maritime Organization). Analogamente, i programmi degli esami per il rilascio delle abilitazioni e qualifiche al personale marittimo nei diversi gradi e funzioni, ivi comprese le patenti nautiche per le unità da diporto, sono stati adeguati alle norme internazionali ed europee e vengono svolti da personale del Corpo appositamente preparato.

Per quanto riguarda la disciplina sull’uso degli spazi marittimi, i tempi erano ormai più che maturi per la realizzazione anche in Italia e su scala nazionale del sistema di Vessel Traffic Service (VTS). Per rendere l’idea, si trattava di attuare anche sul mare, ovviamente con le necessarie varianti dovute al diverso ambiente ed alle diverse situazioni, del servizio di disciplina degli spazi aerei e del traffico aereo denominato Air Traffic Service (ATS). Per tale scopo si sono dovute realizzare apposite stazioni radar, nuove e migliori capacità di telecomunicazione e centrali operative dedicate al VTS con moderni e sofisticati hardware e software in grado di combinare le informazioni provenienti da vari sistemi attivi (radar, satelliti) e passivi (Automatic Information System-AIS), finalizzati alla localizzazione e all’identificazione delle navi, e fornire ai centri di controllo ed alle centrali operative della Guardia Costiera una consapevolezza situazionale (situational awareness) con raffigurazioni complete e costantemente aggiornate della situazione delle navi in porto ed in mare anche a notevole distanza.

Un servizio del genere venne innanzitutto realizzato nei tratti di mare maggiormente a rischio come le Bocche di Bonifacio e lo Stretto di Messina, ma in rapida successione il VTS fu implementato negli spazi marittimi nazionali maggiormente interessati dai flussi di traffico navale come il Mar Ligure, le aree dei maggiori porti, il Canale d’Otranto, l’Alto Adriatico, con l’emanazione di decreti ministeriali che individuano i confini delle aree servite dal sistema e le regole, in termini di rotte e velocità obbligate e procedure di comunicazione da seguire con i vari centri di controllo interessati, che le navi devono rispettare. Il personale della Guardia Costiera addetto al funzionamento del sistema, sia come operatori che come tecnici e responsabili, è selezionato, appositamente qualificato ed esclusivamente dedicato a tale servizio. Al controllo delle aree servite e disciplinate dal VTS partecipano anche le unità navali ed i mezzi aerei della Guardia Costiera in stretto coordinamento con i centri di controllo VTS. Quelli descritti sono, quindi, gli ambiti di competenza della Guardia Costiera e gli strumenti di cui si è dotata per ridurre il livello del rischio e prevenire il verificarsi di incidenti con un’efficacia adeguata alle moderne sfide. Ma, purtroppo, shit happens per usare un’espressione inglese un po’ volgare, ma che esprime molto bene il concetto che anche i più sofisticati sistemi di prevenzione possono fallire e sempre per tragiche catene di concause ed eventi. E se il sistema VTS in numerosi casi ha risolto situazioni di pericolo anche grave, la sera del 13 gennaio 2012 non ha potuto evitare il naufragio della grande nave da crociera “Costa Concordia” sugli scogli dell’isola del Giglio, ma semplicemente perché il VTS non ha mai visto la luce nell’area dell’arcipelago toscano.

Il progetto iniziale prevedeva la realizzazione di un sistema integrato lungo l’intera linea di costa nazionale in modo da coprire tutti gli spazi marittimi ricadenti nella giurisdizione italiana. Ma non sono mai stati stanziati fondi sufficienti e, pertanto, restano ampie aree marittime, anche assai importanti per il loro pregio e per i rischi che presentano per la navigazione proprio come l’arcipelago toscano, escluse da tale servizio. Ogni commento mi sembra superfluo. Come superfluo sarebbe commentare l’altra grave vicenda che ha interessato il servizio VTS. La sera del 7 maggio 2013 una nave stava manovrando con l’ausilio di piloti e rimorchiatori per uscire dal porto di Genova attraverso l’imboccatura di levante, allorché un’avaria non consentì l’’inserimento della “marcia avanti” e la nave proseguì con il suo abbrivio in retromarcia sino ad impattare la banchina sopra la quale esisteva la cosiddetta “torre piloti” che, a seguito dell’urto, crollò. Sulla torre erano collocati il centro di controllo VTS del Mar Ligure, la centrale operativa del 1° Sotto-centro di Soccorso Marittimo (Maritime Rescue Sub-center) della Guardia Costiera, la centrale operativa dei piloti del porto di Genova, la centrale operativa dei rimorchiatori del porto di Genova oltre a vari uffici e servizi. Morirono 9 persone, tra le quali 6 militari della Guardia Costiera.

Sono stati svolti processi, sono state individuate responsabilità a carico di alcuni soggetti appartenenti a diverse organizzazioni, ma ritengo inconfutabile la constatazione che, se il primo porto d’Italia fosse stato opportunamente allargato ed adeguato alle moderne dimensioni delle navi ed ai volumi di traffico propri del mondo globalizzato, così come hanno tempestivamente provveduto a fare già negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra fredda i grandi porti nordeuropei, questa tragedia non si sarebbe verificata, quantomeno non secondo le modalità descritte. Basti pensare che la diga foranea del porto di Genova, un porto particolarmente affollato con la compresenza di cantieri, aree riservate alle unità da diporto, stazione marittima, terminal container, aeroporto oltre alle navi da carico e passeggeri che devono manovrare per l’ingresso e l’uscita, è stata costruita tra il 1916 ed il 1933 e soltanto ora si stanno compiendo concrete azioni per lo smantellamento dell’attuale diga e la sua ricostruzione più al largo. Meglio tardi che mai, con l’auspicio che si potranno, in un futuro che si spera vicino, evitare altre tragedie.

Ma torniamo agli anni ’90 del XX secolo e ad un’altra epocale conseguenza della fine della guerra fredda: gli imponenti flussi migratori sia da paesi liberati dall’oppressione comunista sia da paesi africani ed asiatici vittime di regimi corrotti e violenti oltre che di una sconcertante povertà. L’Albania è stato il paese emblema dell’immigrazione irregolare di massa in Italia negli anni in esame, con tanti morti in mare, importazione di fenomeni delinquenziali e guerra civile che hanno comportato una missione multinazionale di pacificazione sotto egida ONU a guida italiana e la progressiva normalizzazione della situazione sociale ed economica grazie anche ai cospicui investimenti dall’Italia. Già nel 2009 l’Albania è entrata a far parte della NATO, ma nei suoi confronti l’Italia sembra aver perso l’attrattiva di un tempo a tutto vantaggio della Turchia che, dallo scorso anno e su decisione del parlamento albanese, è investita dell’incarico di addestrare le forze armate di quel paese: incarico significativo per la strategia turca di penetrazione nell’area balcanica.

A proposito dell’area balcanica, altra drammatica conseguenza dell’implosione dell’impero sovietico e della fine della guerra fredda furono le guerre iugoslave che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia tra il 1991 ed il 2001, causandone la dissoluzione. Furono conflitti assai complessi alimentati da motivazioni nazionalistiche, economiche, culturali ed etnico-religiose, oltre che da ambizioni ed interessi personali dei capi delle diverse fazioni, e nell’ambito di tali conflitti intervenne direttamente la NATO in seguito ad apposite risoluzioni dell’ONU.

In particolare, nelle acque internazionali dell’Adriatico ebbero svolgimento diverse operazioni finalizzate a verificare l’applicazione delle sanzioni economiche e l’embargo delle armi nei confronti della ex Iugoslavia: l’Operazione Maritime Guard tra il 1992 ed il 1993 a guida NATO e che assunse sotto un’unica catena di comando anche l’Operazione Sharp Fence inizialmente a guida UEO, e l’Operazione Sharp Guard tra il 1993 ed il 1996. A quest’ultima operazione parteciparono 22 navi militari delle marine di 14 Paesi tra cui l’Italia e furono interrogate 74.192 navi mercantili in navigazione in Adriatico, vennero controllate 5.951 navi e 1.480 navi furono dirottate in porti italiani per ulteriori verifiche e controlli a cura delle varie articolazioni territoriali del Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera che anche a questa complessa situazione dedicò la propria insostituibile professionalità con grande impegno.

E a questa operazione è legato il nome ed il ricordo di un pilota della Guardia Costiera nei confronti del quale nutrivo una profonda stima ed amicizia. A bordo delle navi della Marina Militare italiana impiegate nell’Operazione Sharp Guard vennero imbarcati diversi ufficiali della Guardia Costiera che, grazie alla specifica competenza in materia di navi mercantili, diritto della navigazione, diritto internazionale e penale, costituivano un rilevante valore aggiunto per il buon esito delle attività. Anche il Tenente di Vascello Roberto Aringhieri, pilota della Guardia Costiera, venne imbarcato su Nave Euro impegnata nella suddetta operazione e il 28 ottobre 1995, nel Canale d’Otranto, durante la verifica del carico di un mercantile diretto verso un porto croato in condizioni ambientali avverse, si offrì volontario per aprire la strada al successivo impiego della squadra di ispezione nelle stive della nave, ma cadde e perse la vita. Gli è stata conferita la medaglia d’oro al valor di Marina. Gli è stata intitolata la Base Aerea della Guardia Costiera di Sarzana dove prestava servizio come pilota e porta il suo nome anche la seconda delle unità maggiori della Guardia Costiera della nuova classe “Angeli del Mare” varata pochi mesi fa, Nave Aringhieri appunto.

Il nuovo secolo si aprì con una nuova sfida verso la Superpotenza globale e i suoi alleati: l’11 settembre 2001 l’incredibile azione che distrusse le torri gemelle a New York gettò il mondo occidentale nell’incubo del terrorismo. Il forte impulso di cui gli scambi commerciali, soprattutto marittimi, la circolazione delle persone e le comunicazioni godevano nel mondo globalizzato stava subendo una pesante minaccia. Occorreva incrementare ed ottimizzare le missioni di pattugliamento e sorveglianza delle Marine Militari e delle Guardie Costiere, ispirandole al concetto operativo della maritime security, al fine di intercettare ed identificare navi e traffici sospetti per provenienza e/o comportamenti.

Anche le unità navali ed aeree della Guardia Costiera italiana furono fortemente impegnate nel controllo capillare di tutto ciò che si muoveva sul mare, potendo impiegare il nuovo aereo per il pattugliamento marittimo ATR-42MP appena entrato in servizio, dotato di grande autonomia e modernissimi sistemi di sorveglianza di superficie diurni e notturni. Di grande aiuto fu anche l’interoperabilità che i mezzi aerei della Guardia Costiera conseguirono con le navi ed i mezzi aerei della Marina Militare italiana e dei Paesi NATO, grazie agli appositi corsi che il personale di volo del Corpo frequentò presso il Centro Addestramento della Marina Militare (MARICENTADD) e di cui chi scrive fu promotore ed organizzatore. Questi corsi, purtroppo e chissà per quale ragione, non vengono più svolti ed i nuovi piloti ed operatori di volo della Guardia Costiera non vengono più addestrati a cooperare con unità navali ed aeree della Marina e della NATO e ne ignorano le procedure.

E’ certamente una grave carenza che potrebbe rivelarsi anche rischiosa nell’attuale situazione geopolitica dell’area mediterranea che descriverò più avanti. E mentre la Superpotenza avviava un gravoso impegno in Iraq ed Afghanistan, coinvolgendo alcuni alleati tra cui l’Italia, il Mar Mediterraneo centrale ed orientale era sempre più interessato da massicci flussi migratori provenienti principalmente dall’Africa subsahariana con imbarco in Libia e dal vicino Oriente che impegnavano enormemente gli assetti navali ed aerei della Guardia Costiera, ma non solo, nelle operazioni di ricerca e soccorso, ma anche nell’identificazione di possibili rischi legati a terroristi infiltrati tra i migranti.

Il secondo decennio del nuovo secolo si aprì con i disordini legati alle cosiddette “primavere arabe”, determinati dalla commistione di istanze di maggiori libertà politiche e di migliori condizioni economiche e di lavoro da parte delle popolazioni di diversi Paesi del Nord Africa e del Medioriente. La repressione che seguì fu particolarmente cruenta in Libia con centinaia di morti in pochi giorni e determinò il 19 marzo 2011, a seguito della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’intervento militare contro le forze leali al presidente libico Gheddafi delle aeronautiche e delle marine inizialmente francese, britannica e statunitense e, successivamente, da parte di 19 Stati tra cui l’Italia nell’operazione denominata Unified Protector a guida NATO. L’operazione cessò il 31 ottobre 2011 a seguito della cattura e dell’uccisione di Gheddafi da parte delle milizie ribelli. La fine dell’operazione ed il totale disinteresse sulla pacificazione della Libia da parte degli Stati che condussero l’intervento militare gettarono il Paese nel caos politico ed economico e le vecchie e mai sopite suddivisioni e rivalità tribali presero il sopravvento.

I traffici illeciti si svilupparono a dismisura, contrabbandando petrolio tra Libia, Malta e Sicilia e sfruttando le centinaia di migliaia di migranti che dai paesi subsahariani si riversavano sulla costa mediterranea agognando una traversata verso l’Italia e l’Europa con l’altissima probabilità di lasciarci la vita. Furono anni di eroico impegno da parte degli equipaggi delle navi di soccorso e degli elicotteri della Guardia Costiera italiana che portarono in salvo centinaia di migliaia di persone. Ma anche da parte delle navi e degli elicotteri della Marina Militare nella grande operazione umanitaria denominata “Mare Nostrum” in stretta cooperazione con il Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso in Mare (Italian Maritime Rescue Coordination Center) presso il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto.

Ma un altro evento stava fomentando ulteriormente il disordine nel Mediterraneo: la guerra civile in Siria che ha comportato un massiccio numero di rifugiati (se ne stimano attualmente più di cinque milioni), l’acquisizione da parte della Russia, in cambio dell’appoggio fornito al presidente siriano, della strategica base navale di Tartus nel Mediterraneo, la sconfitta da parte della Turchia dell’odiata fazione curda e il disimpegno della Superpotenza dal Medio Oriente che fa pendant con il disimpegno dall’Afghanistan e dal Mediterraneo. In particolare, il disimpegno statunitense dall’area mediterranea ha provocato una progressiva estensione verso nord della linea di confine tra Caoslandia e Ordolandia,cioè tra le zone in preda al disordine e le zone governate, investendo ormai buona parte del Mediterraneo centrale ed orientale e non credo che sia un caso che al disimpegno statunitense in quest’area corrisponda, invece, un accresciuto interesse e una nuova vivacità di azione della Turchia che trovano senso nella recente adozione della dottrina strategica della Patria Blu o Mavi Vatan in lingua turca.

L’attuale dinamismo turco nell’area mediterranea ha origine dalle opportunità politiche ed economiche che le scoperte di numerosi e cospicui giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, a partire dal 2009, possono offrire. Questi giacimenti ricadono nelle zone economiche esclusive israeliana, cipriota ed egiziana e vedono interessate nelle prospezioni e nello sfruttamento principalmente Italia, Francia e Grecia. Ma vi sono diverse dispute territoriali relative alle zone economiche esclusive tra i Paesi dell’area. In particolare, la questione del riconoscimento della Repubblica turca di Cipro del Nord da parte della Turchia ma non del resto della comunità internazionale induce la stessa Turchia a ritenere illegittimi i contratti stipulati dal governo di Cipro per le esplorazioni nella parte della Zona Economica Esclusiva cipriota che la Turchia ritiene appartenere alla Repubblica turca di Cipro del Nord. Per questa ragione nel 2018 alcune navi della marina turca hanno impedito ad unità dell’italiana SAIPEM di operare in quell’area. Inoltre, il 27 novembre 2019 la Turchia ed il governo di Tripoli hanno firmato un accordo bilaterale sulla definizione dei confini delle rispettive ZEE includendo zone marittime che la Grecia aveva precedentemente definito come parti della propria ZEE sulla base della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS 82) che la Turchia non ha firmato. L’accordo turco-libico prevede, altresì, l’assistenza militare di Ankara in caso di richiesta di aiuto da parte di Tripoli.

Era, ovviamente, prevedibile che avvenisse, visti i rapporti molto tesi tra Tripoli e la Cirenaica del generale Haftar appoggiato militarmente dai russi e, così, la Turchia ha inviato attrezzature ed armi, come i famigerati droni bayraktar, oltre a mercenari che hanno difeso Tripoli dagli attacchi di Haftar. Ma era assolutamente chiaro che con l’accordo sulle ZEE la Turchia intendesse impedire la realizzazione del gasdotto EASTMED, il cui progetto vede concordi Italia, Grecia, Cipro e Israele per il trasporto del gas dal Mediterraneo Orientale sino ad Otranto e dall’Italia verso l’Europa. L’obiettivo della Turchia è chiaramente quello di porsi come hub energetico nei confronti dell’Europa, prendendo il posto che la Russia ha perso a causa delle sanzioni conseguenti all’invasione dell’Ucraina. Bruxelles si è da tempo espressa positivamente sulla realizzazione del gasdotto EASTMED e lo ha indicato come progetto di interesse comune europeo. Gli USA hanno inizialmente sostenuto il progetto con l’obiettivo di ridurre la dipendenza europea dal gas russo, ma hanno recentemente ritirato il proprio appoggio sia per evitare di inimicarsi la Turchia sia perché vi è un malcelato interesse a vendere il proprio GNL (Gas Naturale Liquefatto) ed ha giustificato la nuova posizione con l’eccessivo costo del gasdotto che sarebbe lungo 1900 km e dovrebbe scendere a grandi profondità con rischi per l’ambiente marino.

Ma le diatribe sulle Zone Economiche Esclusive, sullo sfruttamento delle risorse energetiche marittime ed anche gli scontri tra Turchia e Grecia sullo status delle isole dell’Egeo rendono chiaro il fatto che la sicurezza dell’intero Mediterraneo è minata dall’instabilità crescente nella sua parte orientale. Inoltre conosciamo bene la disinvoltura con la quale il presidente turco sa giocare su tavoli diversi le proprie carte pur di conseguire i propri obiettivi. Ogni situazione di crisi diventa nelle sue mani un’arma geopolitica da volgere a proprio favore. È già successo con i rifugiati siriani nell’accordo con Angela Merkel nel marzo 2016, lo si è visto più di recente con il grano ucraino, sta avvenendo qualcosa di analogo con EASTMED e potrebbe avvenire con i migranti presenti in Libia considerata la presenza e l’influenza turca su Tripoli oppure facendo valere l’accordo con la Libia sulle ZEE del 2019 per opporsi alla realizzazione, magari da parte dell’ENI, di nuovi impianti di estrazione di gas e petrolio. Insomma, grande è il disordine sotto il cielo del Mediterraneo!

Ma bene ha fatto l’attuale Primo Ministro italiano nelle sue recentissime visite in Algeria e Libia a manifestare presenza, interesse e disponibilità. L’Algeria, in particolare, ha proceduto ad istituire la propria ZEE con decreto presidenziale del 20 marzo 2018 senza un preliminare accordo con gli Stati frontisti e confinanti, creando un’area sovrapposta, ad ovest della Sardegna, alla Zona di Protezione Ecologica (ZPE) istituita dall’Italia nel 2011 e con la ZEE istituita dalla Spagna nel 2013. Inoltre, la ZEE algerina lambisce per 70 miglia le acque territoriali italiane a sud-ovest della Sardegna e, considerato che l’Algeria ha uno stretto accordo militare e per la fornitura di attrezzature ed armamenti con la Russia, sarebbe sconcertante ritrovarsi al limite delle nostre acque territoriali un sommergibile classe Kilo di fabbricazione russa! (Occorre osservare, a tal riguardo, che l’Italia non ha ancora concordato con i Paesi limitrofi i confini della propria ZEE ed è rimasta tra gli ultimi Stati mediterranei a non disporne ancora).

Inoltre, l’Algeria fornisce dal 1983 gas all’Italia tramite il gasdotto TRANSMED che termina a Mazara del Vallo e gli accordi stretti tra i due governi prevedono un sostanzioso incremento del quantitativo di gas algerino, anche liquefatto, verso l’Italia. Riallacciare i rapporti con Tripoli è stata una mossa davvero strategica, anche perché il quantitativo di gas che transita nel gasdotto GREENSTREAM che porta il gas libico sino a Gela negli anni si è notevolmente ridotto e gli accordi stretti negli scorsi giorni vanno nel senso di incrementare significativamente la quantità di gas verso l’Italia e di ricominciare ad investire da parte di ENI insieme con la libica NOC (National Oil Company) per realizzare nuovi impianti offshore di estrazione al largo della costa tripolina. Una vera sfida nei confronti della Turchia come anche l’intendimento chiaramente espresso dal Primo Ministro italiano di creare le condizioni perché l’Italia diventi l’hub energetico dell’Europa. Considerato anche l’incremento della quantità di gas già concordato per il gasdotto TAP (TransAdriatic Pipeline), in effetti l’Italia ha avuto l’abilità de depotenziare l’opposizione turca (e statunitense) al gasdotto EASTMED, rendendone meno urgente la realizzazione ed offrendo spazio per trattare soluzioni alternative.

L’attuale situazione dell’area mediterranea non si presenta, dunque, affatto tranquilla, ma, anzi, ricca di contrasti e di rischi assai difficili da governare: la crisi energetica che ha investito l’Europa a seguito del conflitto russo-ucraino impone la diversificazione delle fonti di approvvigionamento con conseguente incremento dei quantitativi di gas immessi nei gasdotti sottomarini e del numero di navi gasiere che interessano il Mar Mediterraneo; l’attacco subito dai gasdotti NORDSTREAM 1 e 2 nel Mare del Nord dimostrano la vulnerabilità dei gasdotti sottomarini che necessitano di assidua sorveglianza. Come detto sopra, l’Italia è approvvigionata da tre gasdotti sottomarini; il Mar Mediterraneo ha visto ridursi le aree di alto mare e corrispondentemente aumentare gli spazi marini territorializzati con l’istituzione anche unilaterale di Zone Economiche Esclusive. Presto anche l’Italia avrà la propria ZEE e dovrà garantirne la costante sorveglianza e un’adeguata capacità di intervento per individuare e reprimere le violazioni alle norme che ne disciplineranno l’uso; il fenomeno dell’immigrazione irregolare viene utilizzato da alcuni Stati come arma geopolitica e, pertanto, presenterà forme probabilmente ancora più pericolose delle attuali per la vita delle persone coinvolte; l’interesse russo all’area mediterranea è cresciuto molto in pochi anni come attestano la base di Tartus in Siria, il gruppo Wagner in Cirenaica, la vendita di armi e mezzi militari all’Algeria, l’accordo con l’Egitto per la costruzione di una centrale nucleare in prossimità della costa mediterranea e la presenza di navi militari anche massiccia (19 la scorsa estate).

Poiché l’imminente ingresso della Finlandia e, probabilmente, della Svezia nella NATO renderà sempre più problematico alla Russia operare nel Mar Baltico, è prevedibile un incremento della sua presenza nel Mediterraneo; i contrasti tra Grecia e Turchia per l’Egeo, per la delimitazione delle rispettive ZEE, per la questione cipriota e per lo sfruttamento dei giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale si stanno acuendo e potrebbero condurre ad un conflitto armato, alimentato, altresì, dalla vendita di aerei da combattimento, navi e sommergibili ad entrambi gli Stati da parte, in particolare, di Francia e USA. Gli effetti di un eventuale conflitto si ripercuoterebbero sulla sicurezza dei traffici dell’intero Mar Mediterraneo. Tutte le situazioni ed i connessi rischi sopra esposti afferiscono alle funzioni di Guardia Costiera ed esigono l’impegno degli assetti navali ed aerei della Guardia Costiera italiana in virtù della posizione dell’Italia nel Mediterraneo e dei suoi primari interessi geopolitici nei confronti del suo “estero vicino”. L’ovvia domanda a questo punto è: ma la Guardia Costiera italiana è nelle condizioni di far fronte a tali situazioni e rischi? Secondo me, la risposta dovrebbe essere: la componente navale probabilmente sì, ma la componente di volo ad ala fissa sicuramente no. Dispone, infatti, soltanto di tre aerei ATR-42MP e di un aereo P-180 e gli equipaggi sono pochi e non adeguatamente preparati ad operare in presenza di navi ed aerei militari. L’estensione degli spazi marittimi da sorvegliare richiederebbe almeno il raddoppio delle attuali disponibilità di mezzi ed equipaggi, l’aggiornamento dei sistemi di scoperta, localizzazione ed identificazione, l’installazione di più adeguati sistemi di telerilevamento ambientale e l’utilizzo di link satellitari.

Inoltre sarebbe necessario riavviare l’indottrinamento degli equipaggi alla cooperazione con unità militari. È evidente l’impossibilità di reperire risorse umane e finanziarie per addivenire ad un simile risultato, ma si potrebbe istituire una collaborazione tra le organizzazioni che operano sul mare con aerei simili come la Guardia di Finanza che dispone di 3 ATR-42MP e 4 P-72MP e l’Aeronautica Militare che dispone di 4 P-72MP, al fine di garantire adeguata continuità alla sorveglianza degli spazi marittimi che presentano i livelli più elevati di rischio. Si potrebbe anche creare un’apposita sinergia tra la sorveglianza satellitare e quella aerea, analogamente a quella creata con successo dallo scrivente per la sorveglianza continua in funzione antinquinamento delle piattaforme petrolifere presenti nelle acque italiane. Per concludere, il rinnovato dinamismo dell’Italia sul piano internazionale, a tutela dei propri interessi nazionali ed in coordinamento con gli organi centrali dell’UE, necessita di credibilità soprattutto nell’odierna situazione in cui sono compromessi aspetti vitali come gli approvvigionamenti strategici, il commercio internazionale, la libertà e la sicurezza della navigazione, l’ambiente. Per conseguire credibilità, occorre difendere e garantire tali aspetti vitali che afferiscono tutti alle funzioni di Guardia Costiera che andrebbero opportunamente implementate e non potrebbe essere diversamente per un Paese come l’Italia che vive sul mare e del mare, anche se spesso lo dimentica.
Di Paolo Cafaro (Contrammiraglio Pilota Guardia Costiera) – EmmeReports
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