È una giornata nuvolosa, di fine febbraio. Strati bassi e stratocumuli coprono il cielo fino a bassa quota e, insieme a temperatura, vento ed umidità, contribuiscono a creare la tipica giornata uggiosa che ti fa guardare il calendario per vedere quanto manca alla primavera. Ma le condizioni meteo, oggi, non possono nulla contro l’atmosfera calda, amichevole e goliardica che caratterizza un gruppetto di “reduci” attorno ad un tavolo in un agriturismo sulle colline del Lago di bracciano. Siamo alcuni componenti dell’Aeronautica Militare dell’Operazione Locusta (la versione italiana dell’Operazione Desert Shield e successivamente, Desert Storm) e, ogni tanto, ci ritroviamo per una piccola rimpatriata. Sette anni fa, abbiamo festeggiato sotto i riflettori il 25° anniversario della fine del conflitto e del rientro in Patria dalla prima Guerra del Golfo (1990-91) e qualcuno, con il bicchiere in mano, lancia un brindisi al 32° anniversario del cessate il fuoco e della contestuale fine delle operazioni aeree offensive.

Ci faccio caso e mi rendo conto che, in questi giorni di 32 anni fa, precisamente il 28 febbraio del 1991, mentre eravamo già legati a bordo per una nuova missione contro le forze irakene, vennero i colleghi sotto gli aeroplani per comunicarci la decretazione del “cessate il fuoco” e l’annullamento della missione. E, col bicchiere in mano, nell’arco di pochissimi secondi, rivivo all’improvviso qui mesi passati in mezzo al deserto degli Emirati Arabi Uniti, fra gli alloggi situati in container, il nostro circolo, la linea volo dell’Aeronautica Militare, le missioni supporto e quelle di attacco. Un turbinio di ricordi, che si accavallano fra di loro e fanno a gara per riemergere prima e meglio degli altri, spesso non rispettando le “gerarchie” e la linea temporale sulla quale sono collocati. E non è semplice tenerli in riga; quei bastardi sono pervasi di mania di protagonismo! Provo, allora, a metterli al loro posto, fra una battuta, un sorso di ottimo rosso locale e una fetta di salame di cinghiale. Mi ricordo benissimo della situazione logistica iniziale, frutto di una necessariamente frettolosa pianificazione e di un teatro di operazioni totalmente inedito per l’Aeronautica Militare. Aldilà di varie operazioni minori per l’ONU, era dalla 2ͣ Guerra Mondiale che l’Italia non era impegnata in un conflitto “reale”, di quelli classici, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, con l’impiego pianificato di armamento contro il nemico e con la perfetta consapevolezza che il nemico avrebbe fatto lo stesso con noi, fra l’altro con una motivazione molto più forte della nostra.

Ciononostante, la sistemazione logistica venne ben organizzata ed eseguita. Fra tende e container (i famosi “corimec”), ogni persona, ogni funzione ed ogni cosa avevano il proprio posto. Fra i tanti spunti di logistica che mi vengono in mente, di sicuro il più “simpatico” è quello relativo al vitto. Inizialmente, andando contro le nostre tradizioni più radicate, l’organizzazione decise di andare in outsourcing, ovvero di affidare ad altri la gestione del vettovagliamento e della mensa del distaccamento dell’Aeronautica Militare. E “gli altri” negli EAU, era una ditta a matrice pakistana. Era solo questione di tempo che, pur essendoci i nostri rappresentanti in cucina per tentare una sorta di controllo qualità, gli equipaggi di volo finissero per pranzare e cenare con le “Razioni K” (pacchetti sigillati di viveri da usare sul campo in mancanza di cibo fresco) invece che andare a mensa. Questo sia per la tipologia e qualità del cibo che per gli effetti nefasti che gli ingredienti usati avevano sul nostro sistema gastroenterico, decisamente impreparato ad affrontare tale situazione. Parecchi furono, infatti, gli episodi in cui membri degli equipaggi dovettero rinunciare ad andare in volo, essendo obbligati a dirottare la loro missione in infermeria o nel WC. E fu, quindi, ancora solo questione di tempo che, visto il precipitare della situazione, le Superiori Autorità decidessero di tornare ad affidarsi ad una di quelle capacità per cui gli italiani non hanno rivali al mondo: la squadra vettovagliamento tattico da rischieramento, capeggiata dal mitico Maresciallo di Mensa.

E, finalmente, tutti potemmo tornare a dedicare tempo ed energie alla nostra missione primaria (oltre che a non vedere più l’ora di pranzo e cena come una minaccia siderale). Ciò causò, a breve, un noto ed inevitabile effetto che i rischieramenti militari italiani causano all’estero: l’aumento esponenziale della cosiddetta “clientela esterna”. In sintesi, dovunque ci rischieriamo con una nostra “capacità di cucinare” al seguito, gli stranieri che ci ospitano o che condividono la base di rischieramento con noi, prima o poi e con le scuse più fantasiose, vengono a mangiare da noi. Finché, alla fine, l’unico motivo che riescono a sostenere è che “da voi si mangia troppo bene!”.

E la Guerra del Golfo non fece eccezioni. Poco dopo l’arrivo del nostro team mensa, gli americani dell’USAF (Reparto di F-16) con cui condividevamo la base di Al Dahfra, ci misero un attimo a capire che si era aperto un nuovo ristorante in città. E, gradualmente, iniziarono ad affacciarsi da noi con le famose scuse estemporanee sperando di essere invitati a cena. Ad un certo punto, il management della mensa dovette rivedere il budget della cucina, in quanto i clienti erano aumentati di parecchio. Dal punto di vista amministrativo, ciò non sarebbe stato possibile. Ma dal punto di vista operativo, questa situazione aveva il suo perché. Il detto “una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso” vale dovunque, specie in situazioni estreme come questa. Ognuno, quindi, metteva a disposizione degli altri ciò in cui poteva dare di più. Le operazioni aeree reali, come è ovvio, hanno bisogno di informazioni aggiornate all’ultimo minuto. In questo gli americani, essendo i padroni del teatro operativo, erano imbattibili. Noi dell’Aeronautica Militare avevamo i nostri canali di intelligence, ma, pur disponendo di canali informativi nazionali e di coalizione, sicuramente non potevamo competere con loro per completezza e tempestività delle informazioni “last minute”. Per cui si creò una sinergia funzionale che vedeva noi far mangiare bene gli americani e loro darci l’aggiornamento intelligence aggiornato al momento del rullaggio. Una classica “win-win situation”.

Dopo l’abbattimento del Tornado dell’Aeronautica Militare nella prima notte di operazioni, si decise di volare alla quota di 20.000 piedi. La scelta fu obbligata dal fatto che la contraerea irakena “ignorante” (cannoni di vario calibro a corto raggio senza guida radar, la cosiddetta AAA – Anti Aircraft Artillery)) era talmente numerosa da costituire praticamente una “nuvola di piombo” sopra le aree difese, che fu la causa dell’abbattimento di vari velivoli cacciabombardieri che, non disponendo ancora di “armamento intelligente”, nei primi giorni di guerra tentarono gli attacchi a bassissima quota con armamento convenzionale. Nessun sistema di autodifesa dei velivoli della coalizione avrebbe potuto farci nulla, a parte non entrare nell’inviluppo di quelle armi, ovvero girarci attorno o volarci sopra, ad una quota superiore alla loro gittata. E quest’ultima opzione era stata quella scelta per quella missione. Mentre la difesa contraerea basata su missili guidati (SAM) è impiegata per ingaggiare una minaccia a medie grandi distanze (da 5 a oltre 100 Km), le armi contraeree basate su proiettili non guidati hanno normalmente un raggio d’azione molto limitato e sono impiegate per una difesa a corto-cortissimo raggio e, come dolorosamente dimostrato le prime notti di guerra, se usate in modalità “saturazione d’area”, hanno una efficacia letale.

Praticamente, per chi attacca è come correre sotto la pioggia cercando di non bagnarsi. Inoltre, essendo piccole, estremamente mobili e numerosissime, queste armi sono praticamente inattaccabili, a meno di un bombardamento d’area a tappeto che, tuttavia, in quel teatro non era possibile. L’arsenale contraereo irakeno disponeva di un immenso inventario di queste armi, di vari calibri e relative gittate. Le nostre informazioni intelligence, nella sezione minaccia AAA, riportavano l’impiego del sistema S-60 (un cannone contraereo che sparava proiettili da 57 mm, il più potente dell’inventario) col munizionamento spolettato a 16.000 piedi. Ciò significa che i proiettili, una volta sparati, sarebbero esplosi a quella quota. Noi, quindi, con i nostri Tornado dell’Aeronautica Militare, avremmo volato 4.000 piedi (1.300 mt) sopra la quota d’ingaggio della contraerea con la gittata maggiore.

Nel corso della missione, ci trovammo a volare sopra un sottile strato di nuvole, che ci impediva il contatto visivo col terreno. Ad un certo punto, in avvicinamento all’obiettivo, cominciammo ad avvertire una notevole turbolenza, come dei singoli sbalzi molto ravvicinati fra di loro, sotto di noi. Subito dopo si aprì un varco nelle nuvole e vedemmo le esplosioni della contraerea appena sotto il nostro livello di volo, probabilmente meno di 500 piedi sotto di noi. Gli irakeni, avendo visto che la coalizione aveva deciso di volare a 20.000 piedi, modificarono la spolettatura del munizionamento S-60 di conseguenza, anche se al limite della portata operativa di quei proiettili. Il leader della formazione ordinò l’immediata salita di 2.000 piedi e questo ci portò di nuovo fuori dalla portata della contraerea.

Proseguimmo la missione e sganciammo il carico bellico sull’obiettivo assegnato. Quel giorno la fortuna fu dalla nostra parte. Bastava una regolazione altimetrica diversa, e qualcuno di noi non sarebbe tornato alla base. Sulla via del ritorno, fu inviato un “Inflightrep” (un rapporto di missione immediato) al centro di Comando e Controllo delle operazioni aeree, segnalando la nuova quota d’azione dell’S-60. Questa informazione fu immediatamente diffusa a tutta la coalizione con un “Flash message” (messaggio ad altissima priorità) e ciò permise a tutte le missioni in volo quel giorno e nei giorni successivi di non farsi prendere di sorpresa come successo a noi. Per una volta, eravamo noi la fonte esclusiva di una importante informazione intelligence. E ci aspettava il mitico “Miller Time”! La birra con i colleghi al termine della missione. Come già detto, la prima Guerra del Golfo fu la prima occasione in cui l’Aeronautica Militare moderna fu impiegata in operazioni reali assimilabili ad un conflitto convenzionale. Per cui, in mancanza di pratica nella gestione “social” di questa situazione, per portare un po’ di deserto nelle case degli italiani e un po’ d’Italia nel deserto, ci si riferì anche a modelli del passato, tipo la Seconda Guerra Mondiale o la più recente guerra del Vietnam.

In tali contesti, era usuale vedere delle star della TV e del Cinema far visita alle truppe al fronte. Serviva sia ai soldati, che ai loro famigliari a casa. E così, un giorno, nel periodo precedente l’inizio delle ostilità (avvenuto il 17 gennaio), all’atterraggio da una missione di pattugliamento sul Golfo Persico a protezione delle navi della nostra Marina Militare (nell’ambito dell’Operazione Desert Shield), notammo un certo movimento sul piazzale adiacente all’area di parcheggio dei velivoli. Una volta parcheggiati, prima di spegnere i motori, lo specialista a terra, una volta collegato al Tornado con il suo cavo per comunicare con l’equipaggio, ci informò che ci sarebbe stata un’attività “Social-Media” da supportare con un personaggio famoso dello spettacolo italiano. E così, una volta spenti i motori, slegate le cinghie e aperto il tettuccio, ai piedi della scaletta apparve Sabrina Salerno in tutto il suo splendore che ci aspettava per fare delle foto! Noi eravamo, a dir poco, esterrefatti! Proprio non ce l’aspettavamo. E così, fra imbarazzo, sorpresa e, ammetto, anche con un minimo divertimento, finimmo su uno dei principali rotocalchi settimanali nazionali come “I Top Gun italiani”.

Sul fronte del tempo libero, al di là di tutte le predisposizioni logistiche di natura operativa, fu tenuto in grande considerazione il supporto al personale dell’Aeronautica Militare rischierato nel deserto arabo. Fra le varie amenità, venne organizzato uno spazio ricreativo e per il relax del personale libero da attività. In particolare, fra gli altri, vennero creati due ambienti a tema: uno con una serie di PC di nuova generazione (il mitico Commodore AMIGA nelle versioni 500 e 2000) con una sconfinata libreria di videogiochi procurata da un nostro appassionato collega, l’altro costituito da una sala musica, dotato degli strumenti musicali normalmente utilizzati da un complesso (tastiere, chitarre, basso, batteria, sassofono, armonica, ecc). In quest’ultima sede, si sbizzarrivano tutti coloro che, sapendo (o non sapendo) suonare uno strumento, provavano a creare improbabili “jam sessions” dove si alternavano musicisti di varie e diversificate capacità. I generi più suonati erano il blues, il rock, un po’ di jazz (per i più virtuosi). Ma non mancavano anche sessioni di musica leggera italiana (i grandi classici come Battisti, Baglioni, Venditti). Ed era divertimento allo stato solido. Una sera, un gruppo di partenopei si azzardò a provare a suonare dei pezzi neomelodici napoletani. Dopo la prima strofa, si videro arrivare addosso i cuscini dei divani e tutto ciò che poteva volare senza fare troppi danni. E il messaggio fu recepito. A similitudine di quanto successo con la mensa, i colleghi dell’USAF che passavano da noi per sgraffignare uno spaghetto fatto a regola d’arte, si accorsero anche di quest’altra nostra ulteriore opportunità. Chiesero, quindi, di poter partecipare alle nostre serate in qualità di “session men”, il che fu ampiamente approvato. Noi, nel frattempo, eravamo stati autorizzati a fare la spesa nel loro negozio, il mitico Base Exchange (o “BX”) e ad usare le loro cabine telefoniche per chiamare in Italia. Si crearono quindi delle opportunità di esibizione per un sacco di gente, tanto che fu necessario organizzare lo stage con prenotazioni e tempi assegnati.

Inizialmente, vi fu un’alternanza di band Aeronautica Militare e US Air Force che si sfidavano a suon di pezzi d’antologia della musica. Alla fine, però, erano più le band miste AM-USAF che quelle “single brand”. Una cosa fantastica! Io, che avevo un po’ di esperienza con la chitarra, imparai a suonare il basso, che mi piaceva un sacco, soprattutto nell’ambito blues. Per dovere istituzionale (il mio Comandante di Gruppo Volo amava cantare canzoni di cantautori italiani) dovetti anche suonare i relativi pezzi con la chitarra elettrica. Ma dopo aver visto e sentito suonare alcuni colleghi USAF, decisi che mi si addiceva di più lil ruolo di spettatore. Noi siamo rientrati in Patria prima dei colleghi americani. Mi ricordo come ci rimasero male quando li informammo che da lì ad un paio di giorni saremmo partiti (e con noi, ovviamente, le loro possibilità di frequentare la nostra mensa ed il nostro circolo). I Tornado lasciarono la base di Al Dahfra per rientrare in Patria l’11 marzo 1991. All’improvviso, mi trovo di nuovo sulle colline del lago di Bracciano con un dolce nel piatto ed un bicchiere in mano. Allora mi viene spontaneo lanciare l’ennesimo brindisi. “Al Maresciallo di mensa di Al Dahfra!! Gheregheghez!”.
Di Alfonso Dalle Nogare (Colonnello Navigatore Aeronautica Militare) – EmmeReports