Era da poco passata la Pasqua del 1282 quando una giovane donna, uscendo dalla chiesa di S. Spirito a Palermo, dopo aver preso parte alla funzione vespertina venne oltraggiata da un soldato francese con la scusa di perquisirla.
Per difenderne l’onore, il marito si scagliò contro il militare uccidendolo e così iniziò la sanguinosa rivolta dei Vespri Siciliani. I francesi, trovandosi alle strette, decisero di abbigliarsi come i palermitani, ma non avendo fatto i conti con la loro furbizia caddero ingenuamente nel tranello escogitato appositamente per stanarli. Il trabocchetto consisteva nel fare pronunciare agli antenati dei mangiatori di baguette, o almeno a coloro che destavano i loro sospetti, la parola “ciciri“, ovvero ceci. Il malcapitato, che a causa della lingua madre non era in grado di pronunciare la “c palatale”, rispondeva “sisirí” e veniva ucciso senza pietà.
Questo legume, alimento altamente nutritivo e mezzo per disfarsi delle vessazioni angioine, sembra avere origini molto antiche. Tracce di un tipo selvatico risalenti a 5000 anni fa sono state rinvenute in Turchia e, secondo alcuni ritrovamenti, si diffuse in seguito anche in Egitto. La macinatura dei ceci forniva una farina che, mescolata all’acqua, creava un composto molto denso, nutriente e ricco di vitamine dando vita a un pasto perfetto per sostenere il fisico degli schiavi.
Anche i Greci preparavano questo “pastone” con farina di ceci e acqua che poi cuocevano, il termine che conosciamo oggi deriva infatti dalla parola greca Kikus (forza). In epoca Romana veniva invece coltivato il “Cicer Aretinum” e il composto del prodotto (cece) veniva cotto nei forni. Il termine “Cicer” era anche un soprannome (cognomen) dato a chi aveva un’escrescenza sul volto, per questo l’oratore per antonomasia Marco Tullio Cicerone venne così chiamato. In epoca medievale, sebbene secondo alcune fonti la tecnica fosse in uso già al tempo dell’impero Romano, si iniziò a friggere quel composto in olio usato affinché si arricchisse di altri sapori, probabilmente perché l’insipido e pesante “pastone” di acqua e farina di ceci, non riscontrava più grande successo.
Si pensa sia questa l’antenata della “panella”, un piccolo quadratino dallo spessore minimo ottenuto dopo avere spianato il composto che, tuffato nell’olio bollente, ne esce dorato e dall’inconfondibile fragranza.
Gli arabi furono i primi a Palermo a macinare i ceci e, mentre al tempo il composto era consumato crudo, oggi il panino con le panelle è l’incontrastato protagonista dello Street food. Anticamente i termini più diffusi associati alla panella erano friggitoria o panelleria sostituiti in seguito dal più sofisticato “gastronomia”, ma il fascino del “panellaro” con il suo “lapino a tre ruote“, solitamente azzurro e blu, non ha eguali.
Mangiare un panino con le panelle è scandalosamente voluttuoso. Servito in quella che si chiama “carta da pane”, ovvero un foglio di colore marroncino che filtra l’olio della panella e lo trasferisce direttamente sulla mano che regge il panino, non ha prezzo. Il furbo panellaro sa bene dove posizionare il proprio “mezzo” poiché consapevole che l’odore della panella fritta non perdona e così organizza la sua istigazione all’acquisto. I luoghi ideali sono gli angoli delle strade, possibilmente nei pressi delle scuole e uffici. La sua trappola olfattiva che porterà inevitabilmente “all’addentamento” del panino, inizia poco prima della ricreazione. Si accerta della direzione del vento e…inizia a friggere! Peggio di Tantalo che non riusciva a bere, i ragazzi sentono quel “ciavuru” (profumo) e iniziano ad avere deficit cognitivi e di attenzione “da panella fritta”.
Il messaggio subliminale, ma non troppo, scatenerà al suono della campanella, la carica di adolescenti affamati. Al “croccare” della panella fritta a dovere, dentro la tipica Mafalda o focaccia, non resiste nessun palermitano. Spesso alle panelle vengono abbinati i “cazzilli” o “crocché”, altra specialità semplice e locale, di cui parleremo la prossima volta. Intanto, se potete, che sia “panellaro” o “gastronomia”, non perdetevi (rivolto soprattutto agli alloctoni) questa delizia nata povera, ma immancabile anche nei ristoranti più chic.
Ingredienti:
500 grammi di farina di ceci
1,5 litri di acqua
prezzemolo tritato o finocchietto selvatico (secondo il gusto personale) q.b.
sale e pepe, q.b.
olio di semi di arachide per friggere, q.b.
Preparazione:
Mettere in una casseruola capiente la farina di ceci e aggiungere lentamente l’acqua fredda, mescolando bene e velocemente con una frusta, in modo da non formare grumi.
Quando farina e acqua si saranno amalgamate formando una crema, salare e portare a ebollizione continuando la cottura a fuoco basso per almeno 30 minuti, mescolando ininterrottamente affinchè il composto non si attacchi sul fondo. Sarà pronto quando inizierà a staccarsi dalle pareti. Unire il pepe e il prezzemolo tritato (o il finocchietto selvatico tritato). Se necessario, aggiustare di sale. Stendere il composto su una spianatoia, usando una spatola e portarlo a uno spessore di 3-5 millimetri al massimo. Non appena si sarà raffreddato completamente, tagliare rettangoli di circa 5 centimetri per 6 e friggere in abbondante olio di semi. Servire calde, con qualche spicchio di limone.
Buon appetito!
Di Monica Militello Mirto – EmmeReports