Ancora una vittima, ancora un soldato. Sono così in tutto 52 i soldati francesi uccisi nel Sahel dal 2013 nell’ambito delle operazioni anti-jihadismo Serval e Barkhane. Un soldato francese è stato ucciso in combattimento in Mali. Si tratta del Caporal-Maggiore Maxime Blasco, del 7° Battaglione degli Alpini di Varces che a giugno aveva ricevuto la medaglia militare “per l’eccezionale valore dei suoi servizi”, come ha fatto sapere l’Eliseo, esprimendo “l’emozione particolarmente forte” del presidente Emmanuel Macron.
Il soldato francese è stato ucciso durante un’operazione nella regione di Gossi, vicino al confine tra Mali e Burkina Faso. Il mese scorso Parigi ha annunciato l’uccisione in Mali del leader del gruppo jihadista dello Stato Islamico nel Grande Sahara, Adnan Abou Walid Al-Sahraoui.
D’altra parte, c’è tensione tra il governo francese e quello maliano per l’intenzione di quest’ultimo di stringere un accordo con l’agenzia di sicurezza russa Wagner, la cui presenza è “incompatibile” con il mantenimento in Mali delle truppe francesi, ha avvertito il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian. In Mali si vive una guerra infinita. Il conflitto è iniziato nel 2012 con la dichiarazione di secessione del cosiddetto Azawad, il territorio desertico del Nord e poi con la successiva invasione del Nord da parte di forze islamiste appoggiate da formazioni autoctone. Da allora la guerra non è mai terminata e il Mali è praticamente un Paese spaccato a metà. La strage di civili nel villaggio a Ogossagou, nella Regione di Mopti, e in quello di Sobanou-Kou, vicino alla città di Sangha, sono gli ultimi di una serie di assalti di una spirale di violenza che ha portato alla morte di 600 persone e ha provocato migliaia di sfollati da marzo 2018 solo nella Regione di Mopti.
La strage del Mali non è un fatto isolato. Tutta la Regione del Sahel è coinvolta in scontri tra pastori nomadi e agricoltori stanziali. In pratica una lotta all’ultimo sangue per le risorse sempre più rare, in questo caso la terra sempre più contesa anche per questioni climatiche, cioè per l’avanzata del deserto. In Mali si tratta di uno scontro tra pastori nomadi di etnia fulani e agricoltori stanziali di etnia dogon o berbere. In sostanza una lotta per la vita o per la morte in una Regione dove le risorse – terra e acqua – sono sempre meno rispetto alla popolazione.
Gli islamisti delle formazioni jihadiste del Nord combattono per rendere sempre più incontrollabile e instabile la grande parte Settentrionale del Paese mentre la Francia – con il suo principale alleato africano, ossia MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) – combatte per restituire la perduta integrità territoriale a seguito della proclamazione, nell’aprile 2012, da parte dell’MNLA (Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad), dell’indipendenza dell’Azawad, Regione che comprende il territorio tra il Nord del Mali, il Niger e il Sud dell’Algeria. L’MNLA, dopo un valzer di alleanze con le forze islamiste, ha firmato il cessate il fuoco con le autorità di Bamako, ma si mantiene su una posizione di sostanziale attendismo, senza aver rinunciato alle proprie rivendicazioni, derivate da una consolidata tradizione di ribellioni tuareg che puntano all’affrancamento dal resto della società maliana. Le sigle islamiste attive, originariamente tre (Ansar Dine, Mujao, Aqmi) e oggi frastagliate in molte altre formazioni, hanno l’intento dichiarato di asservire tutto il Mali alla legge della Sharia; durante i mesi dell’occupazione del Nord, si sono registrati diversi episodi legati a questa interpretazione oltranzista del Corano: come lapidazioni, mutilazioni, distruzione di mausolei considerati iconoclasti. L’Operazione Serval prima e l’attuale Operazione Barkhane sono quindi servite a respingere l’avanzata islamista congelando la situazione nel Nord. Mentre a Bamako il Presidente Ibrahim Boubacar Keita tenta di promuovere qualche riforma, la situazione nelle Province del Nord rimane critica.
Di Lorenzo Peluso – EmmeReports