Rassegnarsi o impegnarsi, accomodarsi o inquietarsi, tacere o alzare la voce, sembra essere il bivio di fronte al quale la storia ci sta chiedendo risposta e fare delle scelte A ciascuno è dato di accettare la sfida della partecipazione per fare la propria parte, oppure rimanere indifferente, ritenendo che siano da tenere in considerazione solo le questioni che coinvolgono direttamente. Questa deriva esprime la cultura dell’individualismo libertario che ha assunto il “voglio dunque sono” – e cioè il sentire soggettivo – quale criterio di scelta.
A differenza del passato, l’interconnessione dei nostri giorni ci permette di affacciarci, oltre i Talk show, alla finestra di chi paga un prezzo troppo alto con la propria vita mantenendo, così, un sistema che procura opulenza ai contesti più agiati e schiavizzazione alle fasce di popolazione sempre più povere. Basti pensare al sistema fiscale italiano che, paradossalmente, penalizza salari e profitti e agevola le rendite, per cui chi lavora è sottopagato e chi gode i benefici dei possessi viene incentivato. Questo sistema genera povertà, anche perché molti dei capitali vengono investiti all’estero, così come accade per le mafie che, ricorrendo ai paradisi fiscali, vanno a colonizzare luoghi ed economie senza un effettivo sviluppo locale.
Sappiamo, ad esempio, come in Inghilterra è molto semplice creare in poco tempo una nuova società per investire i capitali illeciti. Emblematico è il caso di Londra dove all’indirizzo 29 di Harley Street nel quartiere di Marylebon, troviamo, nello stesso civico, la sede di migliaia di società che gestiscono ingenti investimenti e molti nel campo immobiliare. Mentre la City sta vedendo nascere numerosi stabili di pregio, questi vengono lasciati vuoti, perché sono solo funzionali alle speculazioni edilizie di pochi notabili e, dunque, un intero quartiere diventa emblema di una bellezza solo apparente ma vuota di umanità.
Questo sistema sta ampliando la forbice tra ricchi e poveri con il relativo aumento delle disuguaglianze che, resta bene inteso, non dipendono solo dal reddito ma anche dalle maggiori o minori opportunità di libera espressione. Intere fasce di popolazione, infatti, sono private della libertà di scelta e costrette a vivere in un rapporto di sempre maggiore sudditanza. La chiave di volta, non abbiamo dubbi, è la partecipazione politica condividendo una visione che si fa carico delle conseguenze delle singole scelte tenendo conto della difesa dei diritti e della giustizia sociale. Questo comporta un cambiamento dei paradigmi perché è l’umano a dovere ritrovare il primato sulla tecnica e sull’economia. Parlare di riforme politiche è irrilevante perché, queste, se non cambia la visione ed il relativo processo, rimarrebbero succubi dell’economia di turno e della visione tecnocratica che pensa più alla efficienza dei risultati che alla qualità di vita delle persone.
Non è semplice riflettere sulle dinamiche della politica nazionale e, di riflesso, locale perché sovente i confronti si sono rivelati pretestuosi e le presentazioni programmatiche sono state ridotte a palinsesti ideologici. Piuttosto è necessario tornare a dare senso e valore alle parole, le quali devono servire a condividere la riflessione e l’azione politica per il bene della Comunità.
Riflettendo sulle scelte terminologiche del nuovo governo Meloni, appare evidente un uso strategico dei nomi dei ministeri modificati, così come quelli di alcuni dicasteri, certo quella della riformulazione linguistica dei ministeri è una tendenza a cui già assistiamo già da diversi anni ma, puntualmente, abbiamo bisogno di decodificare il senso delle parole per comprenderne il significato che, altrimenti, potrebbe rimanere ambiguo.
L’espressione “Sovranità Alimentare” che viene associata al Ministero dell’Agricoltura, ad esempio, a primo acchito potrebbe rimandare ad una terminologia sovranista traducibile con l’isolazionismo politico-militare della destra populista. L’accostamento fatto nel Ministero della “Istruzione e merito” farebbe pensare ad una accentuazione meritocratica, escludendo le fasce di popolazione svantaggiate. O, ancora, il passaggio dal Ministero della “Transizione Ecologica” a quello dell’“Ambiente e della Sicurezza Energetica”, lascerebbe intendere un allontanamento dalle tematiche della desertificazione e dei cambiamenti climatici.
Secondo la nostra prospettiva, restituire umanità e visione comunitaria ai processi politici in corso, significa parlare di “Sovranità Alimentare” intesa come forma di protezionismo economico che esprime il diritto al cibo sano e della cultura del luogo, frutto di coltivazioni ecologiche e sostenibili che si estendono a livello locale o regionale secondo una filiera etica. Tale significato comporta anche il rispetto della popolazione, spesso immigrata, che lavora nelle campagne e che abbisogna di una costante tutela di fronte al caporalato. Riguarda, pure, il riconoscimento del cibo di strada, ad esempio quello che è nato dalla sintesi etnica frutto delle integrazioni pluridecennali delle nostre città, dove sapori e costumi si sono uniti generando cultura.
Anche l’accostamento “Istruzione e merito” può uscire da una logica meritocratica che, altrimenti, rivelerebbe disparità di trattamento tra i cittadini. L’emancipazione culturale è diritto di tutti e certo questa non può scadere nel compromesso di una formazione più scarsa. Se abbiamo bisogno di una scuola più competente e capace di riconoscere le qualità di quanti desiderano impegnarsi per raggiungere obiettivi più alti, le scelte devono indirizzarsi sull’educare e non sull’istruire.
La scuola non è una catena di montaggio e deve tornare ad educare persone e cittadini che nutrono passioni per i valori umani ma, se ci si limita al merito, allora si trasforma in un luogo di istruzione dove il docente può essere sostituito da un automa perfettamente capace di trasmettere nozioni. L’educare, ancora, esula dal clima competitivo proprio di chi cerca il primo posto e non ammette discriminazioni perché il diritto al futuro e alla libera espressione è bene comune.
La focalizzazione sulle energie rinnovabili declassando l’interesse per l’uso di fonti energetiche non rinnovabili, infine, abbisogna di una prospettiva più ampia che tenga conto di temi quali la desertificazione e i relativi cambiamenti climatici. Una visione organica che si interessa alle conseguenze delle singole azioni e riflette su come prendersi cura dell’intero pianeta assai ferito. La crisi ecologico ambientale, pertanto, è un tema trasversale che abbraccia tutto il processo politico perché dalle scelte dei prossimi decenni dipenderà il futuro dell’umanità. Abbiamo bisogno di tornare a processi comunitari dove ciascuno si senta coinvolto nel generare, insieme agli altri, qualità di vita buona e percorsi di umanizzazione capaci di includere tutti, nessuno escluso.
Di Fratel Mauro Billetta – EmmeReports