Fine settembre 2020… ho appena pubblicato il mio primo romanzo “Operazione Silent Caiman” e ricevuto le prime recensioni e apprezzamenti, quando di punto in bianco decido di accendere il PC e iniziare a pensare di buttare giù la trama del seguito, lasciando inascoltate le raccomandazioni di chi mi consigliava di prendermi un periodo di pausa più lungo.
L’ho detto più volte e lo ribadisco: quando ho iniziato a scrivere il mio obiettivo era quello di dedicare un romanzo per ciascuno dei quattro reparti TIER1 delle nostre Forze Speciali, proprio nell’ottica di continuare a dare la visibilità che meriterebbero gli operatori che appartengono a questi reparti, contribuendo a sfatare il mito che “tutto ciò che è anglosassone è migliore del nostro”. Ma ci troviamo a metà 2020, e la situazione pandemica che impedisce di visitare strutture, stringere mani e scambiarsi abbracci, mi sbatte in faccia quella che è la realtà: senza una visita di persona e interviste vis-a-vis con personale del Col Moschin o del GIS o del 17°, un nuovo romanzo che narri le vicende di uno di questi reparti non sarebbe all’altezza dell’opera prima. Decido quindi di optare per la tattica “squadra che vince non si cambia” ma, memore delle difficoltà di adattare la trama per permettere l’utilizzo di un reparto di Forze Armate sul territorio nazionale, provo a immaginare uno scenario fuori dai nostri confini.
Fin da subito, pertanto, i punti fermi erano due: i protagonisti sarebbero stati di nuovo gli uomini del GOI (Gruppo Operativo Incursori), l’ambientazione questa volta sarebbe stata fuori dall’Italia. Per quest’ultimo punto la scelta non è stata casuale e ho subito capito che dovevo andare in uno dei luoghi di interesse nazionali nel mondo, vale a dire in quella fetta di Africa Occidentale che stava diventando il nuovo centro nevralgico della geopolitica mondiale in quel momento, prima che la guerra di aggressione russa ai danni dell’Ucraina portasse le luci della ribalta in Europa Orientale.
Da subito decisi che l’antagonista dovesse essere sempre lo stesso, quel Fatih/Sultano/Ayman che era riuscito a farla franca nel corso del primo romanzo, e che fosse catalogato come una spina nel fianco dal nostro Governo, qualcuno che rappresentasse un “Pericolo Imminente”, per dirla alla Tom Clancy, che proponesse una “Sfida Continua” e che fosse, pertanto, “una minaccia da neutralizzare”. Dopo parecchie nomination con le combinazioni più curiose proposte ai miei stimati beta-reader, mi rendevo conto che titolo e sottotitolo erano invece sempre stati a portata di mano.
Mentre la scrittura procedeva, un’altra idea si fa luce nella mia testa: «Perché non provare a dare risalto a qualche altra componente, sempre all’interno della Marina Militare?», mi chiedo pensando a voce alta. Ancor più che per il luogo di ambientazione del romanzo, quella della branca della Forza Armata da coinvolgere nella trama è stata una scelta naturale che ha richiesto un tempo di riflessione praticamente pari a zero: avrei parlato dei nostri Sommergibilisti, eredi anch’essi di una gloriosa tradizione che mette le radici in tempi lontani.
Le donne e gli uomini della componente Sommergibili della nostra Marina sono militari che, analogamente agli operatori FS (Forze Speciali), vivono una vita di sacrifici, con tempi lunghissimi lontano dai propri affetti e soprattutto in condizioni di assoluto isolamento, in uno spazio ristretto da condividere con decine di colleghi. Solo queste considerazioni dovrebbero bastare a far comprendere come per intraprendere questo mestiere sia necessaria una certa attitudine mentale e una grande forza di volontà, e se aggiungiamo che tutto quanto sopra è da compiere in un tubo d’acciaio lungo una sessantina di metri e largo sette a decine di metri sotto il livello del mare, si capisce quanto straordinari siano i nostri sommergibilisti.
Una volta tirata giù una trama e una scaletta temporale degli eventi che volevo raccontare, la vera difficoltà è stata conciliare la nuova quotidianità legata all’allentamento delle restrizioni per la pandemia con la solita e la consumata routine familiare e lavorativa con la ricerca di nuovi “slot” da dedicare alla scrittura durante la giornata. Ma, e qui cito il mio amico e collega Francesco Cotti, “il primo è culo, il secondo è testardaggine”, mai frase fu più azzeccata e ho iniziato riga dopo riga a mettere in tre dimensioni una trama che fino a quel momento si trovava solo nella mia testa, pur tra mille difficoltà.
Le differenze e le similitudini rispetto al primo romanzo ci sono state, non ho commesso alcuni errori tipici dell’esordiente e ho tenuto un approccio completamente differente rispetto al primo: con Operazione Silent Caiman ho proceduto a grappoli, scrivendo l’idea centrale di ogni capitolo e poi sviluppando il resto della trama attorno a essa, mentre con Sfida Continua la stesura è stata lineare da pagina A a pagina Z per la quasi totalità del romanzo.
L’altra grossa differenza è stata relativa all’ambientazione, passando da luoghi dei quali avevo una conoscenza analitica a luoghi che avevo visto solo sulle mappe, con la conseguente necessità di prevedere per la ricerca una parte sostanziosa del monte-ore riservato alla stesura del romanzo. Come per il primo libro, però, scrivere di una cosa per la quale si ha una sincera e genuina passione stimola ad andare avanti senza freni, con le dita che si muovono armoniosamente sulla tastiera del PC fino al momento in cui si arriva a mettere il punto finale, un momento in cui si incontrano i sentimenti contraddittori di compiacimento per essere arrivati in fondo e di dispiacere per non poter più raccontare eventi con i protagonisti che tu stesso hai creato.
Come molti sostengono, scrivere è un’attività stressante e per nulla divertente… Ma allora perché ho diabolicamente perseverato? Semplicemente per quanto detto all’inizio dell’articolo e per contribuire a dare visibilità alle imprese di “uomini normali, con una mente particolare, che svolgono un lavoro speciale”.
Di Alessio Virdò – EmmeReports