Col tempo si invecchia, e le sembianze reali dei lineamenti appaiono in volto. La Turchia stenta a resistere al cambiamento. Ancora una volta ci consegna un’immagine di sé stessa inconfondibile e prevaricante. Oggi ha compiuto l’ennesimo tradimento verso sé stessa e il suo popolo. Per la prima volta la prestigiosa Università Boğaziçi di Istanbul, eccellenza accademica e luogo di pensiero liberale, non sarà guidata da un suo membro, ma da un ex politico scelto tra le fila dell’AKP direttamente da Recep Tayyip Erdoğan. Da oltre un mese impazza una protesta a favore della libertà, accademica, e contro ogni ingerenza, politica.
La nomina a rettore di Melih Bulu, fedelissimo a Erdogan, in una Università nota per l’eccellenza accademica, animata da cultura progressista, tacciata di simpatizzare addirittura per le élite che guardano all’Occidente, ha fatto scalpore, innescando una sommossa, pacifica. Dal 2016 Erdoğan ha il diritto di nominare i rettori delle università in qualità di presidente. Negli ultimi anni ha imposto la chiusura di più di mille scuole e 15 università considerate sovversive e lo scorso mese è riuscito a far approvare dal parlamento turco una legge che rafforza ulteriormente il potere di sorveglianza, da parte del governo, di fondazioni, ONG e organizzazioni internazionali e della società civile. Non ha lasciato nulla al caso neppure questa volta. Bulu, nominato rettore il primo gennaio, nell’ambiente universitario ha all’attivo solo incarichi amministrativi ed è percepito come un tecnocrate con competenze accademiche inadeguate. Candidato alle elezioni parlamentari del 2015 per il Partito Giustizia e Sviluppo, AKP, fondato da Erdoğan, è l’emblema dell’ennesimo schiaffo alla democrazia che il presidente agisce nel tentativo, riuscito, di limitarne le libertà.
La chiamata diretta ha offeso il mondo della cultura e delle istituzioni “Non accettiamo e non ci arrendiamo!” Lo slogan sdoganato nell’appello degli studenti di Boğaziçi, sostenuto dagli accademici dell’università, che già il 3 gennaio avevano rilasciato una dichiarazione congiunta: “Un accademico al di fuori della comunità dell’Università di Boğaziçi è stato nominato rettore attraverso una pratica introdotta con la tutela militare del 1980”, con riferimento al più duro dei golpe vissuti dalla Turchia. L’indignazione diffusa, che ha coinvolto molte fasce della società solidali con studenti e professori, ha permesso, in brevissimo tempo, di rendere virale a livello nazionale l’hashtag #kayyımrektöristemiyoruz: “Non vogliamo il rettore amministratore fiduciario”.
L’asfissiante tutela militare e burocratica sulle istituzioni civili, in continuità con la statocrazia tipica della cultura politica dell’impero ottomano, è culminata nella prepotenza di questi giorni. Ciò che non ci si aspettava, forse, è la dura reazione degli studenti, che da settimane declamano il decesso dell’istituzione accademica. Le proteste, a gran sorpresa, hanno incassato il sostegno delle opposizioni. La mobilitazione ha avuto un effetto domino in altre città turche, in primis Ankara. La rivolta di queste settimane mette in luce un forte intento: le più prestigiose e antiche istituzioni educative del paese non intendono cedere il passo a nomine esterne alle loro leadership politiche e amministrative, ribadendo l’importanza della completa autonomia e l’indipendenza da qualsiasi pressione politica, per lo sviluppo scientifico e sociale dell’università. Calpestare il sacro principio della libertà di insegnamento e di ricerca, per porre ai vertici uomini a lui fedeli, è costume del Presidente, in ottemperanza alla tecnica di omologazione e agli obiettivi di censura di qualsiasi forma di opposizione. Al Presidente che minaccia ed espelle docenti, giornalisti, attivisti, sequestrando passaporti e ledendo i diritti fondamentali dei cittadini, per modificare la geografia politica delle istituzioni, gli accademici di tutto il mondo, solidali con i colleghi di Istanbul, hanno firmato un appello a sostegno dell’indipendenza universitaria.
Le firme raccolte, da Berkeley a Yale, dalla Soas alla Sorbonne, sono oltre 1500. Tra i primi firmatari Judith Butler, Seyla Benhabib e Noam Chomsky.
Alle sommosse di piazza di questi giorni, represse dalla polizia con decine di arresti e perquisizioni, si aggiungono le restrizioni sui social. Studenti trattati alla stregua di terroristi. A un mese esatto dall’elezione di Bulu l’università viene occupata, stavolta non dai ragazzi, che manifestano ironicamente durante i sit-in quotidiani davanti ai cancelli, intonando pacifici slogan sulla musica dei Metallica e brani rap. Alle 21.00 del 1 febbraio, in assetto antisommossa, la polizia invade il campo di Boğaziçi, arrestando 160 persone fra studenti e avvocati.

Un controllo della cultura abbastanza invasivo. Già da alcuni giorni centinaia di poliziotti in borghese presidiavano la zona nei pressi del campus; si appostavano tiratori scelti; blindati ovunque; persino i cannoni ad acqua, per contrastare goliardici studenti a mani vuote.
Quaranta anni dopo quel 12 settembre 1980 in cui l’Università Boğaziçi si vide sbarrare l’ingresso da un carro armato, i suoi cancelli sono nuovamente serrati, letteralmente ammanettati da uno stuolo esagerato di poliziotti.
Ma allo schema consolidato delle reazioni repressive, spropositate, da parte delle forze dell’ordine, per la prima volta si è contrapposta la capacità di mobilitazione della società civile. Come ogni sera nel quartiere dove è situata l’università, gli abitanti di Hisarıüstü hanno animato il coprifuoco con stridio di pentole e luci a intermittenza, a testimoniare una solidarietà che va ben oltre i corsi accademici.
L’esasperata caccia allo studente terrorista, ha suscitato all’interno del Paese l’indignazione di moltissime persone, schieratesi sin da subito dalla parte dei manifestanti.
Per la prima volta dallo sciagurato luglio 2016, in cui il mondo intero è rimasto a guardare, dalla società civile turca si è levata una voce.
La comunità del Bosforo promette che la protesta continuerà con marce festose e raduni gioiosi.
Cosa è rimasto di quella ideologia che metteva in discussione il dirigismo elitario kemalista, il quale tentò di “imporre” valori progressisti e democratici con prassi autoritarie, creando ambivalenza nella neo nata democrazia liberale? E cosa è rimasto del populismo conservatore islamico-nazionalista? L’AKP, che sbandierava l’intento di ridefinire i rapporti fra stato e cittadini, ha mantenuto la sua promessa in verso opposto. Oggi il retroterra culturale e ideologico della statocrazia erdoganiana è emerso in tutta la sua valenza violenta e criminale. Il panislamismo, in chiave neo-ottomana, non fa che rafforzare quell’ideologia universalistica il cui presupposto è la realizzazione di una mission che trascende la geopolitica attuale. Oggi le piazze si ribellano, se pur nell’illusione di una vittoria, dimenticando, forse a fatica, che la “democrazia” plebiscitaria e illiberale, che lo Stato turco oggi subisce, non può far altro che sostenere l’avanzata decisa del suo dittatore, a cui inesorabilmente tutto è concesso.

di Elena Beninati – EmmeReports