Da bambina, mi piaceva immaginare la nostra mente come un’enorme biblioteca contenente tantissimi libri, catalogati per anno. Per iniziare a sfogliarne uno, basterà anche una parola e la ricerca si fermerà su quel dato ricordo, evocato da quell’unica parola che apre la porta del tempo.
Oggi mentre sistemavo delle videocassette, ormai quasi oggetti vintage, mi è capitata tra le mani quella del “Re Leone” e in modo automatico ho pensato “rupe dei re” e poi solo rupe. Questa la parola chiave che ha tirato fuori un libro da uno di quegli scaffali e ho iniziato la lettura che mi ha condotta a casa dei miei nonni materni, un paradiso per me che peraltro passavo anche tanto tempo con i vicini.
Faccio parte di quella generazione cresciuta con i vicini di casa che ai miei tempi erano una vera e propria istituzione e così io andavo una volta dalla famiglia in cui c’erano tre bambini e un’altra dove viveva una coppia che, pur desiderandoli, non ne avevano avuti. Adoravo vederli insieme, innamoratissimi l’uno dell’altra. Lei, una donna di classe molto bella, dolcissima e con una voce meravigliosa, lui un uomo affascinante e dai modi gentili era un pittore. Mi volevano davvero bene e spesso restavo lì anche a pranzo, poiché una bimba per casa li rallegrava e un giorno mentre lei canticchiava in cucina, tra pentole e fornelli, io ero intenta ad osservare il marito artista all’opera.
Avevo 8 anni e guardavo rapita una tela che si riempiva di colori intensi e sfumature donando profondità e movimento a quella meraviglia. Era un quadro di piccole dimensioni che raffigurava una… Rupe! Il cielo notturno, carico di nubi minacciose e quella rupe che sprofondava nel mare in tempesta erano uno spettacolo affascinante. Di quel giorno due cose sono rimaste impresse nella mia memoria: il quadro e la pietanza che la signora portò in tavola, come secondo piatto. Il primo suscitò in me, sebbene ancora bimba, un’emozione indescrivibile e il secondo, invece, tanta perplessità. Vedere, infatti, nello stesso piatto da portata pezzetti di aringa affumicata, arancia tagliata a tocchetti e scalogno, il tutto condito con olio, aceto e pepe, fu praticamente uno shock.
Se non fossi stata educata a non dire “questo non mi piace, non lo voglio” non avrei avuto l’opportunità di assaggiare un piatto dal contrasto, solo in apparenza, stridente.
L’insalata di aringhe affumicate e arance è davvero unica proprio per questo e, contrariamente a quanto si pensi, non crea linee di demarcazione, tra sapori opposti: quello forte e fumè dell’aringa e quello dolce dell’arancia che si fondono, invece, in un connubio perfetto.
Come sempre nasce come piatto povero nei borghi della città di Palermo, poiché composto da ingredienti facilmente reperibili e a basso costo.
L’aringa è una specie diffusa nell’Atlantico e nei mari del Nord ampiamente commercializzata oggi, così come nel passato. Grazie alle dimensioni pressoché uguali e all’ampio consumo, divenne ben presto una merce di scambio alquanto ambita arrivando, talvolta, a sostituire la moneta. Molti contratti, infatti, venivano stipulati calcolando le rendite derivanti da questo tipo di pesce e, per alcune imposte, rappresentava anche una forma di pagamento.
Il commercio delle aringhe subì un notevole impulso intorno al XII/XIII secolo in seguito alla nascita della Lega Anseatica, un’organizzazione commerciale che deve il suo nome al termine Hansa, ovvero alleanza. Diverse città portuali vi aderirono e collaborando fra loro riuscirono a detenere il monopolio dei commerci in molti Paesi dell’Europa del Nord e del Mar Baltico, solcando quei mari con navi chiamate Cocche, le cui stive traboccavano di varie merci tra cui le aringhe pronte per trasformarsi in cospicui guadagni.
Sostituta della moneta, oggetto di scambio e merce pregiata, diede anche il nome a una delle tante battaglie tra Francia e Inghilterra, durante la Guerra dei Cento anni, che viene ricordata come La Battaglia delle aringhe. Lo scontro avvenne quando i francesi tentarono di intercettare e dirottare un convoglio di rifornimenti per le truppe inglesi che assediavano la città di Orléans. Il carico, secondo alcuni storici, comprendeva oltre a frecce e munizioni, anche diversi barili di aringhe.
L’aringa viene consumata fresca nei paesi del Nord Europa, ma per garantirne la conservazione a lungo termine le tecniche maggiormente diffuse sono l’essiccatura, la salagione e l’affumicatura. Quest’ultima consiste nel porre i pesci su spiedi, dopo essere stati accuratamente puliti, e il tempo impiegato per questo tipo di tecnica determinerà la tipologia dell’affumicatura stessa: Silver dopo 12 ore, Golden dopo 3 giorni e Hard Cure dopo 10/12 giorni.
Un procedimento che conferirà all’aringa un gusto particolare e un aroma intenso già sufficiente, quest’ultimo, a soddisfare l’appetito delle classi più povere. Infatti un tempo, in Sicilia, l’arenga veniva soltanto stricata (strofinata) su fette di pane, mentre in Friuli la renga si strisciava su fette di polenta. Unicuique suum… Strofinamento.
Questo per quanto riguarda l’ingrediente “forte” dell’insalata, ma passiamo all’altro, decisamente più delicato: l’arancia.
Il termine deriva dal persiano nārang e questo, probabilmente, dal sanscrito nāgaranja, ossia frutto prediletto dagli elefanti. Sia l’origine che la diffusione della specie sono molto discusse, ma dalle notizie raccolte sembra fosse presente, fin dall’antichità, in Cina e successivamente introdotta in Europa dagli arabi che misero a dimora i primi impianti, aventi soltanto funzione ornamentale e i frutti erano amari.
La coltivazione in Italia, in particolare in Sicilia e in Calabria, delle arance dolci si fa coincidere con il periodo degli scambi commerciali con i portoghesi e i frutti venivano chiamati portogalli da cui deriva il termine dialettale portualli, ancora in uso in alcune zone della Sicilia.
Per i latini era pomum aurantium (pomo dorato) e proprio per gli aranceti dal caldo colore, la pianura su cui sorge la città di Palermo venne chiamata Conca d’oro che, purtroppo, iniziò a essere deturpata negli anni ’60 a causa del cosiddetto “sacco edilizio” e oggi di quella meraviglia restano solo pochi e sparuti testimoni.
Del succoso frutto dal gusto agrodolce e ricco di vitamina C si utilizza tutto. Dalla distillazione dei fiori d’arancio, sia amaro che dolce, si estrae la pregiata essenza di neroli, largamente impiegata in profumeria, mentre la buccia viene utilizzata per la produzione di marmellate, essenze e olii essenziali.
L’arancia, bella da vedere e buona da mangiare, è anche protagonista di una poetica storia d’amore che poi tanto poetica non si rivelò, a causa di un marito poco resistente al fascino femminile.
Secondo una leggenda quando Era andò in sposa a Zeus, Gea generò una piantina dai cui rami pendevano frutti tondi e dorati, simbolo d’amore e fecondità. Per timore che venisse sottratta, il Divino sposo decise di metterla al sicuro nel giardino delle Esperidi, ninfe dal canto soave e affidò la difesa del luogo al drago Ladone, un serpente con cento teste. Tali accortezze, però, risultarono vane poiché Eracle riuscì comunque a trafugare la preziosa pianta, portando così a compimento l’ultima delle sue fatiche.
Forse nasce da questa leggenda l’usanza di mettere nel bouquet delle spose o nell’acconciatura dei fiori d’arancio, considerati di buon auspicio.
Ma simboli o meno, ciò che conta è mettere amore in ogni nostra azione e nei rapporti umani perché è… ”L’amor che move il sole e l’altre Stelle…” Sempre…anche in cucina! Spero che il Sommo Poeta non me ne voglia!
INSALATA DI ARINGHE
Ingredienti e preparazione
1 o 2 aringhe affumicate
4 arance
1 scalogno
Olio, sale e pepe q.b.
Tagliare sia l’aringa che le arance a pezzetti, affettare lo scalogno e unire il tutto. Condire con l’olio, il sale, il pepe e gustare
Buon Appetito!
di Monica Militello Mirto – EmmeReports