Narrare rappresentando appartiene al normale istinto espressivo dell’uomo ma non è l’unica possibilità della comunicazione visiva; vi sono state, infatti, civiltà millenarie come quella egizia che hanno dato all’opera d’arte un valore assoluto, di presenza da contemplare. Ritengo sia il percorso anche di Giacoma Venuti, pittrice siciliana che si firma Giko; le sue opere usano linguaggi molto diversi, svuotati dalle loro ragioni storiche e contingenti divenendo tecnica, frammenti di un modo decisamente personale di articolare la composizione. Descrivere la sua arte richiede molte premesse per arrivare ad una sintesi semplice, anche se profonda: la ricerca di equilibrio compositivo nel porgere con eleganza spunti di riflessione sul dramma delle vicende umane che si ripetono nella storia senza mai trovare una logica che dia un senso a tale sofferenza.
Giacoma Venuti nasce a Messina, mezzo secolo dopo uno dei più devastanti terremoti che la storia italiana ricordi. Si forma seguendo un regolare percorso artistico, reso sicuramente più maturo da una famiglia dedita da generazioni alla ricerco del bello: padre tenore, zio pittore, nonno decoratore; fa propri entrambi i talenti della famiglia completando gli studi sia all’Accademia di Belle Arti che al Conservatorio musicale e questa prima traccia ci permette di comprendere quanto colore e suono, nella sua percezione emotiva, abbiano entrambi grande peso. La musica ha sicuramente una costruzione logica ma la sua ragion d’essere è quella di evocare e trasmettere emozioni; allo stesso modo il mondo delle forme e dei colori trova una propria giustificazione estetica quando riesce a coinvolgere l’osservatore, andando oltre la mera presenza del quotidiano. Viene spontaneo ricordare Vasilij Kandinskij e il prorompere nel dibattito artistico del ventesimo secolo degli ingredienti necessari di ogni arte visiva: colori e forme, luce accecante e nero assoluto vissuti, nella propria intrinseca forza. L’artista russo aveva chiaro l’effetto fisiologico, e per lui anche spirituale, che suoni, tinte e linee sono in grado di scatenare nell’animo di qualsiasi uomo, pensato come un pianoforte che viene strappato dal silenzio grazie all’arte.
Giko ha una sensibilità per l’arte in generale che la spinge a operare sempre su più piani: è un tentativo di linguaggio totale, multisensoriale. Lavora per il teatro, creando scenografie, associa alla tela frammenti sonori, modifica l’immagine fotografica alterandone i colori, promuove nella propria città uno spazio fisico The Loft Arte, dove l’emozione diventa protagonista indiscussa. Allo stesso modo Giko fa propri i risultati di tante avanguardie, raccoglie suggestioni, utilizza l’elemento formale volutamente tralasciandone la radice e lo rende docile strumento delle proprie intuizioni. “Le grida silenziose” da pittura a digital art, una mostra itinerante sulla tragedia del naufragio e il dolore sordo e incessante dell’esodo ha toccato i luoghi del Mediterraneo che vedono quasi ogni giorno lo svolgersi di questa incessante catastrofe umanitaria: Mazara del Vallo, Agrigento, Catania, Messina, Reggio di Calabria, Napoli. Nelle immagini vediamo il nero germinale, dove vite e speranze si concludono nel silenzio per trasformarsi in un tutto indistinto, il blu più scuro colore del dramma, gli azzurri del silenzio, della lontananza; profili primordiali, segni aborigeni: la tragedia avviene ed è subito dimenticata. Le forme dei corpi sono linee anatomiche intrecciate, la composizione vorticosa, sovente una spirale che ancora di più allontana l’evento e cattura l’osservatore, come la vertigine di una cupola barocca.
“Particella di Dio” presentata all’Istituto di Cultura Italiana a Bucarest è di contro una meditazione sulla forza rigeneratrice, puntata sul cerchio che è allo stesso tempo stabile ed estremamente dinamico, preciso senza essere statico, culla di rossi e di arancioni, energia vitale e consapevole. “Le grida silenziose” offrono un ricordo da porre sull’altare spesso dimenticato della nostra coscienza, “Particella di Dio” la forza primordiale senza giudizio e turgida di vita. L’immaginario di riferimento sono i fotogrammi della scienza, dei notiziari, delle riprese catturate negli abissi dai documentari di scienze naturali. Giko, che è partita dalla somma di esperienze visive del cubismo, sviluppandone la componente cromatica secondo la propria sensibilità espressionista, torna alla percezione del reale attraverso i fotogrammi incisivi e potenti della cronaca, depurati dal transitorio e resi ancora più diretti dal segno marcato e dall’uso sapiente del colore, percorrendo una via che aveva aperto, negli anni Sessanta, Mario Schifano.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports
Ricerche ed editing a cura di Monica Cerrito