Anche il trentennale della Strage di Via D’Amelio è stato archiviato. Tante le iniziative per ricordare il giudice Paolo Borsellino e i poliziotti della sua scorta. Piazze divise dai colori delle magliette, la mattina e il pomeriggio del 19 luglio, il rosso delle agende che hanno presidiato via D’Amelio e di sera il verde o il nero di coloro che hanno partecipato alla tradizionale Fiaccolata da piazza Vittorio Veneto a via D’Amelio. Ma il colore del sangue delle vittime di mafia, versato sull’asfalto, è sempre uguale per tutti.
Tantissimi scout dell’AGESCI, provenienti da tutta Italia, a trent’anni dalla strage, il 18 luglio, hanno manifestato contro la mafia, camminando con le loro uniformi, da piazza San Domenico a via D’Amelio.
“Non è la celebrazione di un anniversario, non è neanche una commemorazione, è un evento per rinnovare l’impegno contro le mafie che, dopo la consegna del testimone offertoci da Paolo Borsellino, l’associazione promuove nei territori attraverso il proprio metodo educativo” hanno spiegato i responsabili dell’AGESCI Sicilia, Maria Grazia Privitera e Giulio Campo, insieme all’Assistente Ecclesiastico Don Pietro Piraino. “Le stragi di mafia hanno segnato in modo indelebile la storia del nostro Paese e dell’AGESCI. Non basta ricordare, occorre agire nel quotidiano per dare continuità alla testimonianza lasciata da donne e uomini delle istituzioni, martiri per la giustizia”.
La mafia a Palermo, in Sicilia è un cancro. Le ultime operazioni di Polizia e Carabinieri, come l’omicidio della Zisa, dimostrano che i mandamenti mafiosi sono sempre molto attivi nei quartieri del capoluogo siciliano, con il pizzo ai commercianti o con le piazze di spaccio. Ma dimentichiamo le coppole e le lupare, i vestiti bianchi e tutti gli stereotipi che ci hanno affibbiato, anche a causa, dei tantissimi film e fiction su Cosa Nostra. La mafia è anche e soprattutto nei palazzi. Da settimane, l’Arcivescovo di Palermo, Monsignor Corrado Lorefice, lancia un grido di allarme, un messaggio per esortare chi amministra le città e la politica in generale, a tenere la guardia alta e, soprattutto, tenere fuori chi vuole trarre profitto, invece di pensare al bene comune.
“Giovanni e Paolo hanno bisogno di amministratori che amino la città, è che si pensano come soci loro, perché loro hanno amato la città in forma sponsale, fino a dare la vita, quindi non c’è altra strada. Non si può amministrare questa città se non la si ama come l’hanno amata Giovanni e Paolo” ha dichiarato Lorefice. “Tutte le altre vie sono una usurpazione e un continuare a far sì che questa città resti schiava. Ma questa è una città che ormai ha una consapevolezza, lo dicono anche tutti i giovani che oggi qui si sono radunati. Questa è una città che ormai, proprio per il sangue che è stato effuso, ha una consapevolezza che non si può tornare indietro”.
“In questo luogo forse è bene riscoprire anche l’intenzionalità di fede che aveva Paolo Borsellino. Questa è un aspetto che purtroppo viene poco fuori. Paolo Borsellino era un uomo di grande fede, però andava avanti, soprattutto come magistrato, assumendo quella che è la responsabilità tipica di chi ha questo tipo di compito, di assicurare la città ad una convivenza umana nel segno della Giustizia” ha affermato Lorefice. “E in questo suo compito, che lui ha portato avanti con competenza e radicalità, fino addirittura disporre della sua vita, chiaramente lui era sostenuto dalla fede. Ne è prova proprio l’ultimo discorso che lui ha fatto durante la veglia del 20 giugno del 1992, dove ripercorre la figura di Falcone e, in alcuni passaggi, anche se non lo fa direttamente, cita la Scrittura, dicendo che i cristiani sono fatti, senza dubbio, per continuare a dare ragione della speranza che è in loro”.
“La speranza per i cristiani diventa, concretamente, amore per gli altri uomini e per le altre donne, soprattutto se sono segnate dallo strapotere dell’ingiustizia, della sopraffazione degli uomini” ha continuato il Monsignore. “Oggi, più che mai, i cristiani sono, con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, in prima fila nel mettere dentro la storia umana, la città umana che abitano con gli altri uomini e con le altre donne, questa forza di riscatto, di liberazione. Oggi più che mai, perché la visione cristiana penso che sia essenzialmente questa, una visione della vita riscattata dal male, perché Cristo è colui che addirittura ha vinto la morte”.
Ieri pomeriggio, presso il SanPaolo Palace Hotel, dove Fratelli D’Italia ha tenuto una conferenza per parlare di mafia, il nuovo vice-sindaco di Palermo, Carolina Varchi, ha fatto la sua prima uscita pubblica, dopo avere ricevuto la fascia tricolore dal sindaco Roberto Lagalla. In serata, il vice-sindaco ha preso parte alla fiaccolata da piazza Vittorio Veneto sino a Via D’Amelio.
“Tra le deleghe che ha voluto assegnarmi il sindaco, c’è anche quella sui beni confiscati” ha spiegato la Varchi. “Una delega importantissima, perché restituire alla comunità, ciò che la criminalità organizzata le ha tolto, è un gesto che ha una valenza culturale non indifferente. Non è un caso che noi oggi siamo qui in un albergo che è patrimonio dello Stato, perché bene confiscato”. Il San Paolo Hotel, come è noto, è stato fatto costruire dai capimafia di Brancaccio, i fratelli Graviano, prima di diventare proprietà dello Stato.
“Nel 1992 ero ancora una bambina e non scesi in piazza come invece fecero i militanti del Fronte della Gioventù dell’epoca, scagliandosi per un risveglio delle coscienze al grido di ‘meglio un giorno da Borsellino che 100 anni da Ciancimino’, uno slogan che ha attraversato decenni e decenni di commemorazioni per giungere oggi qui con tutta la sua tutta la sua veemenza” ha raccontato il vice-sindaco di Palermo. “La data del 19 Luglio ha fortemente caratterizzato il mio impegno politico, provocando tanta tensione emotiva, la stessa che ho portato con me a Roma”.
“La mafia non è più quella ‘coppola e lupara’, ma si annida nelle Istituzioni, nell’economia, perché molto più veloce e molto più brava a capire quali sono i segmenti di mercato in cui conviene investire” ha aggiunto la Varchi. “Un mafioso che sta in carcere, non si dissocia, non rinuncia ai proventi dell’attività illecita, non dimostra di avere tagliato ogni legame col mondo da cui proviene. Dove la magistratura non può arrivare o non vuole arrivare, laddove istituti giuridici, come la prescrizione, vedasi quello che è accaduto a Caltanissetta, impediscono una sentenza di condanna, le Istituzioni devono farsi carico dell’obbligo di ricercare la verità”.
“Credo sia necessario che la politica faccia la sua parte. Una commissione di inchiesta sulla Strage di via D’Amelio è un atto dovuto, ai familiari delle vittime che hanno saputo trasformare un dolore personale in un regalo alla comunità, esercitando il diritto di un’intera nazione a conoscere la verità sui fatti del ’92” ha aggiunto la Varchi.
Alla kermesse politica di Fratelli d’Italia, presso l’hotel di Brancaccio, anche il Presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci che, ormai da settimane, lancia invettive e strali, forse per togliersi qualche sassolino dalle scarpe, dopo aver capito di non essere più gradito come candidato del centro-destra, alle prossime elezioni regionali.
“Si può fare antimafia, parlando sempre di mafia, ma in maniera strumentale e noi in Sicilia abbiamo una fabbrica importante, quella dell’antimafia strumentale, che non conosce crisi e che lavora da decenni, sfornando prodotti più o meno discutibili” ha dichiarato il Presidente dellaMusumeci. “Sono sempre stato diffidente nei confronti di chi, dalla mattina alla sera, si batte il pugno al petto parlando sempre di antimafia. Pericolosi, perché non si limitano a parlare di antimafia, pericolosi perché fanno la lista dei buoni e dei cattivi, pericolosi, perché si ergono ad essere dotati di superiorità genetica, pericolosi perché fanno gli anti- mafiosi per mestiere, pericolosi perché si auto-accreditano. Una sorta di passaporto che consente loro di superare le criticità della vita e di essere accreditati in tutti gli ambienti. Questa parabola, per molti dei professionisti dell’antimafia, è durata poco e si è conclusa nelle aule giudiziarie e sulle pagine della cronaca giudiziaria o della cronaca nera, perché erano mestieranti di antimafia e il più pulito aveva la rogna!”.
“Borsellino fu uno di quei magistrati che venne lasciato da solo, Falcone venne lasciato da solo, Dalla Chiesa fu uno di quei servitori dello Stato che venne lasciato da solo” ha continuato Musumeci. “E quando un bersaglio viene lasciato da solo, si fa passare il messaggio che quel bersaglio non è più protetto. Diventa un facile bersaglio. Non è questo il luogo in cui bisogna indagare sui tanti punti oscuri che, forse, nessun’altra commissione di inchiesta potrà rivelare, perché forse non è troppo di interesse scavare su questo fronte. Ma certamente la storia di questa città, la storia di questa regione sul fronte antimafia è fatta da tanti tradimenti, da tante colpevoli distrazioni da parte di chi, invece, avrebbe dovuto a lungo e costantemente vigilare. In una terra come la Sicilia, in una città come Palermo, nulla è scontato, da 70 anni in Sicilia il confine fra politica e mafia non è stato mai nitido, mai indefinito come in questi ultimi cinque anni”.
Di Francesco Militello Mirto – EmmeReports