Il fico d’India è una pianta dalle origini molto antiche. Secondo una leggenda, infatti, gli Aztechi in cerca di un luogo in cui fondare il proprio regno, si fermarono alla vista di un’aquila tranquillamente appollaiata su un cactus con un serpente nel becco, resa poi il simbolo della loro capitale. Ma senza dover ricorrere alla storia, ancora oggi esso spicca sulla bandiera messicana a simboleggiare la vittoria del bene sul male. Secondo alcune fonti sembra sia stato Cristoforo Colombo, approdato in quelle terre, a portare nel 1493 il Fico d’India nel vecchio continente, convinto di avere visitato le Indie. Altre, invece, sostengono che venne scoperto in Messico da Hernando Cortes nel 1519 e successivamente portato dallo stesso in Europa.
La pianta, qualunque sia la sua “paternità”, si diffuse nel bacino del mediterraneo, acclimatandosi perfettamente. Nel 1768 Miller diede un nome a questa pianta appartenente alla famiglia delle Cactacee, denominandola Opuntia Ficus Indica, chiamata così ancora oggi. La sua particolare e articolata forma, composta da un insieme di cladodi o pale completamente coperte di spine, così come lo sono i frutti che produce, è un’icona della Sicilia e uno dei simboli più rappresentativi del paesaggio mediterraneo. Essa, definita “mostro botanico” poiché resiste a temperature sahariane, rallegra anche i luoghi più desolati e aridi con i colori sgargianti di quei frutti, appartenenti a tre cultivar diverse, quella rossa (sanguigna), gialla (sulfarina) e bianca (muscaredda).
Il Fico d’India fruttifica solitamente alla fine di agosto, ma c’è una specie tardiva che produce frutti chiamati “scuzzulati”, ancora più grossi e dolci degli “agostani”, in autunno. Quelli ancora non perfettamente maturi, in dialetto “bastarduni”, vengono invece chiamati burduni dal latino burdo o burdus (mulo) e quindi considerati bastardi come il quadrupede. Per non essere da meno del popolo azteco, anche noi abbiamo le nostre leggende legate al Fico d’India e una di queste riguarda proprio lo “scuzzulato”.
Si narra infatti che tale specie sia nata da una lite fra confinanti. Un contadino volendo danneggiare le piante del vicino ne recise i fiori, convinto che così facendo non avrebbero fruttificato, invece il processo fu solo ritardato e dopo le prime piogge i frutti risultarono migliori. Secondo un’altra leggenda, invece, “lu peri di ficudinnia” (la pianta di Fico d’India) sarebbe stata introdotta in Sicilia dai turchi per distruggere il popolo siciliano, ma il buon Dio che ama tutti i suoi figli, avrebbe reso i frutti della pianta “cattiva” dolci e dalle proprietà benefiche, tanto da essere successivamente conosciuti anche come “frutti della salute”.
In verità del Fico d’India si utilizza tutto: dai fiori, ai frutti, alle pale. Dal decotto di quest’ultime, dette anche Nopal (così veniva chiamata la pianta dagli Aztechi) si ricava un antinfiammatorio naturale, annoverato fra i cosiddetti “rimedi della nonna” mentre il succo, simile a quello dell’Aloe, si applica per lenire arrossamenti e scottature. Da quello dei frutti, aggiungendo dello zucchero, si ottiene uno sciroppo calmante per la tosse e, infine, con i fiori disseccati fatti bollire per alcuni minuti si otterrà un infuso per alleviare le coliche renali.
Al di là delle proprietà terapeutiche il Fico d’India si presta anche per diverse preparazioni gastronomiche, campo in cui si manifesta la nota arte di arrangiarsi dei siciliani specialmente nei momenti di maggiore difficoltà, come ad esempio durante la Seconda Guerra Mondiale. Si fa risalire a quanto sembra, proprio a quel periodo, la preparazione del “Pizzichintì”, in alcune zone chiamato anche mostarda di Fichi d’India. I Fichi d’India, frutti altamente deperibili, venivano cotti, la polpa passata al setaccio e il succo ottenuto cotto e addensato con farina. Il composto si faceva essiccare al sole e, tagliato a rombi, rappresentava sia una leccornìa per i bambini che il pasto per le classi più povere, se consumato con del pane. Sembrerà strano, ma anche la buccia irta di spine dei Fichi d’India è commestibile e gustosa se panata e fritta, ricetta nata ovviamente dal fare di necessità virtù. Le donne che lavoravano nei campi, dopo avere sbucciato i Fichi d’India da utilizzare per preparare conserve o da consumare a conclusione del pasto, pelavano la buccia privandola totalmente delle spine e dopo averla passata prima nella farina poi nell’uovo e, infine, nel pangrattato la friggevano.
Dal rimedio della nonna, quindi, alle bucce a cotoletta, fino al dolce “Pizzichintì”, ma dai Fichi d’India si ottiene anche un delicato liquore. Una pianta arrivata fino a noi da terre lontane che richiede poche cure, ma che in cambio dona tutto di sé stessa. Determinata a sopravvivere ha messo radici forti e profonde sfidando terreni aridi e quindi più duri, resistendo al sole cocente e parca nel consumare le minime riserve per poi esplodere nei vivaci colori dei frutti dal sapore indescrivibile e unico. Dolci, succosi e dalla consistenza compatta solo in apparenza, poiché addentandoli si sciolgono in un’esplosione di gustosa e impareggiabile freschezza. Forse noi siamo come lei, cresciamo con determinazione in una terra a volte dura, sotto il sole di tanti cocenti delusioni e spesso con le poche riserve di cui disponiamo, ma siamo capaci di donare tanto. Anche noi, frutti spinosi all’esterno per proteggerci, nascondiamo una polpa dolce e morbida come i frutti del Fico d’India.
MOSTARDA DI FICHI D’INDIA
Ingredienti
2 kg di fichi d’India
100 g di farina 00 per litro di succo
100 g in tutto di mandorle e noci tritate
1 cucc.no di cannella e chiodi di garofano
Procedimento
Lavare i frutti, privarli della buccia e tagliarli e metterli in una pentola. Cuocere a fuoco basso, setacciare la polpa ottenuta e raccogliere il succo in una pentola più piccola.
Aggiungere la farina poco per volta, facendo attenzione affinchè non si formino grumi e fare addensare.
Aggiungere le mandorle, le noci tritate e le spezie.
Trasferire il composto in una teglia bassa, lasciare rapprendere per un giorno, poi sformare e fare asciugare all’aria per almeno 6 giorni, girandolo di tanto in tanto. Quando si sarà asciugato tagliarlo a quadrotti e conservarlo in barattoli di vetro.
Di Monica Militello Mirto – EmmeReports
Bellissimo articolo, impeccabile sia sotto il profilo puramente estetico che del contenuto: comincia con la levità stilistica e sostanziale di una favola e finisce con una ricetta. Insomma, io che non sapevo (quasi) nulla del ficod’india ora so tutto quello che è giusto, doveroso sapere, specialmente per uno come me, nato e cresciuto in una terra – la Sicilia – nel cui sole rovente sboccia il suo fiore, affronta e supera tutte le intemperie, non solo climatiche, e alla fine trionfa in un tripudio di colori e di sapore. Grazie.