“Immagine di memoria”, un’acquaforte del 1982 è il nostro primo contatto con le incisioni di Enzo Togo, artista siciliano nel sangue e nell’estetica ma nato a Milano nel 1937. Lo abbiamo già conosciuto con EmmeReports per i colori vibranti e la luce mediterranea che illumina le sue opere. Il mondo della sua arte grafica è intimo, riflessivo e intriso di tecnica tenace, talvolta ardita, sempre paziente e meticolosa.
Anche per questo fu chiamato alla docenza di tecniche dell’incisione all’Accademia di Belle Arti di Como, a quel tempo presieduta dal critico d’arte Raffaele De Grada. Già in quest’opera troviamo la maggior parte dei temi che svelano e ci raccontano la personalità del Maestro. Innanzitutto la sua capacità artistica di guardare la realtà per toni, che possono esseri accesi di colore ma anche e con facilità trasformati in una tavolozza di grigi, dai neri e cupi e profondi lavorati a puntasecca a quelli sottili e pungenti dell’acquaforte, alla gamma dei bianchi spenti, graffiati o vibranti di luce.
In “Immagine di memoria” vediamo Togo autoritratto che, in un limpido giorno di mare, abbassa con le dita la cortina d’ombra sul passato e procedendo da sinistra a destra come in un’Annunciazione presenta un ricordo d’infanzia: l’albero scolpito dal vento, i muri angolosi degli spalti di Forte Gonzaga, un’architettura semplice e arcaica che ripara e protegge.
Togo, con approccio filosofico, guarda al passato e riflette; non è nostalgia, bensì identità, radice. Cerca nel presente gli stimoli per questo ragionar con sé stesso, nel quotidiano e nella banalità apparente di una realtà fatta di cose, di ambienti, d’oggetti. In “Metamorfosi” un mazzo di girasoli ormai avvizziti lasciano i gialli e i bruni del fiore a un disegno secco, ombre di petali ormai svaniti, capolini reclinati che non hanno dato frutto, le foglie sono nervature parallele contorte come lamiere. Erano nello studio, dimenticati; improvvisamente diventano simbolo di spazi infiniti, giustapposti col pittore di cui resta vivido lo sguardo e il suo interrogarsi sul rapporto con la natura: libertà fatta di luce e di vento che appena colta e strappata sfugge, lasciando un palpito che scolora e forse si muta in rimpianto.
Non sempre l’ambizione è in equilibrio con la capacità, talvolta o forse troppo spesso pecca di presunzione e delira. Per rappresentare questa sete d’onnipotenza il segno si fa più secco, il contrasto stridente: la tecnica cambia è xilografia, su compensato marino. Togo non ricorda, questa volta osserva; sullo sfondo lo Stretto, Capo dell’Armi, in Calabria. Gli alberi non sono bosco ma file di pini stradali, le case un semplice profilo serrato e inospitale. Il mare assiste silenzioso, non un’onda, uno sfavillio di luce; l’artista guarda altrove alla ricerca del suo mondo di memorie poi, improvvisamente, qualcosa ne cattura l’attenzione ma lui sposta solo gli occhi e dietro di sé vede Icaro cadere in una silenziosa indifferenza. La xilografia, incisione diretta su legno, ha, come quest’opera malinconica ed espressionista, echi e origini nordiche.
Gaugin, Van Gogh, Schiele, Rembrandt, Dürer hanno preso più volte il proprio viso come soggetto; non era tanto la voglia di lasciare tracce quanto l’attenzione distaccata, in terza persona, d’indagare sulla persona meglio conosciuta e al contempo estranea ed inesplorata della propria vita: sé stessi. Ogni ruga che nasce racconta, ogni nuova ombra è traccia di un’esperienza, di una conquista o di un dramma. Per gli artisti più introspettivi l’attrazione per il mutare del proprio sembiante è irresistibile, la faccia diventa un paesaggio, un tronco contorto, lo sguardo un guizzo di luce o lo sconfinato orizzonte di una solitudine senza parole. Togo non sfugge a questa inclinazione, anzi, la asseconda e in “A mia immagine e somiglianza” la vernice molle dei lineamenti e la puntasecca dei neri presentano un uomo assorto nella propria interiorità, che, invece d’affacciarsi alla finestra, la usa come sfondo.
Ai bambini che visitano il suo studio milanese, Togo spesso racconta della sua ricetta segreta per volare: occorre dare alcune forti bracciate per staccarsi da terra, poi si sarà liberi, leggeri, padroni del proprio corpo. È nuoto trasfigurato, leggerezza provata nell’acqua, sogno dell’infanzia divenuto realtà. Ne “Il volo” l’artista diviene uccello senza peso, sollevato dal soffio del vento. Le case ricordi di un mondo lontano, la terra madre e non matrigna, capace di lasciarti libero e d’accoglierti nuovamente al ritorno.
Acqua e aria sono simmetrici, equivalenti: hanno lo stesso peso cromatico, bianchi o neri sono entrambi spazi infiniti dove trovare la propria identità. In “Notturno sul mar Mediterraneo” la tecnica usa strumenti innovativi industriali: la matrice è di linoleum, l’incisione diretta, il contrasto massimo, ma non vi è tensione, semplicemente equilibrio. La proporzione quasi quadrata, le linee di forza parallele alle diagonali e ai lati. Giorno o notte, acqua o aria, case in ombra o illuminate dal mezzogiorno, sono mondi paralleli in cui l’uomo può esercitare il volo: la massima libertà racchiusa nei limiti fisici del nostro corpo.
Questa libertà, che una società sana dovrebbe tutelare e promuovere, è dignità dell’essere umano, aspirazione a creare, curiosità, sete di futuro. Finché qualcuno dipinge, incide, cerca bellezza, l’umanità, secondo Togo, ha ancora speranza. Per lui, maestro dell’incisione autodidatta, costretto a studiare ragioneria perché Messina solo questa professione o geometra aveva da offrire, e come lui Quasimodo, Vittorini, Montale, La Pira in quella scuola si sono formati. Tra numeri, computi e calcoli, per ognuno di loro il mondo dello spirito, dell’arte, della cultura prese il sopravvento ma restò indelebile la forza e l’amore della propria terra.
In “Immagine di memoria” del 1981 ed “Invasione” tornano preponderanti i temi delle origini: l’artista si affaccia dal cielo guardando i cipressi e gli spalti del Forte Gonzaga, costruito nel Rinascimento dal Vicerè di Sicilia per volere dell’Imperatore, Carlo V d’Asburgo. Una nuvola bianca assume la forma di un cane e poggia il muso selvaggio e buono sul nero profondo dello Stretto di Scilla e Cariddi. L’uomo è figlio della propria terra, ma aspira al cielo infinito.
di Massimiliano Reggiani – EmmeReports